Il cortile di casa degli Usa: golpe in Cile

Un numero di fascicoli declassificati della Central intelligence agency (Cia) forniscono un quadro completo del coinvolgimento degli Stati Uniti nel colpo di stato in Cile, dell’11 settembre 1973, che depose il presidente Salvador Allende. In particolare, le ricerche dello storico Peter Kornbluh, nel libro “The Pinochet file: a declassified dossier on atrocity and accountability”, da cui sono tratte le citazioni del presente articolo, portano alla luce la trama ordita da Washington, da dietro le quinte, nei mesi e gli anni che lo precedettero, mediante agenti e informatori, e stretti rapporti con centri di potere politico locale, quali partiti, imprese, organi di stampa, facilitati dalla presenza di un centro operativo a Santiago.
Le finalità statunitensi, nelle prove documentali, sono espliciti. Gli scarsi risultati della coalizione di destra, composta da Partito Nazionale e Democrazia Cristiana, nelle elezioni del congresso, del marzo di quello stesso anno, avevano persuaso il Dipartimento di stato americano a credere che i piani di manipolazione politica, pressione economica, anche per mezzo di sanzioni bilaterali, nonché di accerchiamento diplomatico sul governo, per mettere fine alla coalizione di sinistra dell’Unità Popolare, guidata da Allende, non avessero prodotto i risultati sperati, e che la soluzione definitiva potesse solo essere nelle mani dell’establishment militare.
Fino ai primi due mesi del 1973, la propaganda faziosa, generata da El Mercurio, e altri apparati di informazione sovvenzionati dalla Cia, si concentrarono su attacchi mirati a confinare Allende all’angolo, o perlomeno impedirgli di ottenere una netta maggioranza, e contribuire a “rallentare il progresso del Cile verso il socialismo”. Il programma dell’Unità Popolare, tuttavia, continuava ad attrarre una larga fetta dell’elettorato, come riportato in un cablogramma al quartier generale della base nazionale della Cia, e l’accresciuto potere elettorale dell’amministrazione di Allende gli consentiva di attuare le politiche progressiste “con maggiore vigore ed entusiasmo”.
Visti gli esiti elettorali, si ritenne essenziale provocare un clima di instabilità politica, e creare una crisi controllata che, con lo spettro di una guerra civile, inducesse l’esercito a considerare la possibilità di un intervento di forza come unica soluzione. Il 17 aprile, con un memorandum della Cia, riguardante gli “obiettivi politici per il Cile”, venne forgiata una nuova strategia, che prevedeva la fine dell’appoggio ai principali partiti dell’opposizione reazionaria. Questo, infatti, secondo la fonte, li avrebbe fatti transitare alle elezioni del 1976, ma anche in caso di vittoria, o un miglior posizionamento, per quella data, l’Unità Popolare avrebbe già adottato “politiche collettiviste” di sinistra, e quello che si sarebbe ottenuto non sarebbe stato che “una vittoria di Pirro”.
Invece, la Cia intendeva “creare le condizioni che potessero portare a un’azione militare”. Ciò comportava il “sostegno su larga scala” a gruppi terroristici, come Patria y Libertad, o “elementi militanti del Partito Nazionale”, per un periodo di tempo specificato tra sei e nove mesi, durante il quale sarebbe stato fatto “ogni sforzo per promuovere il caos economico, aggravare le tensioni politiche, e alimentare un clima di disperazione”, in cui sia i partiti di destra sia l’opinione pubblica avrebbero, infine, “desiderato un intervento, in cui i militari avrebbero preso il controllo del governo”.
Esistevano, però, dubbi nel Dipartimento di stato che temeva le conseguenze di un’azione affrettata, e credeva nella necessità di agire con prudenza, data l’indagine in corso di una commissione del Congresso sugli abusi delle agenzie di intelligence. In questo contesto, ci si chiedeva se fossero maggiori i rischi dei vantaggi nel fomentare un colpo di stato, patrocinando le forze armate o collaborando con gruppi estremisti legati agli interessi del settore privato, preferendo concentrarsi sul traguardo dell’affermazione della destra alle elezioni. Anche il clamoroso fallimento dell’operazione Schneider induceva a scetticismo. Nel 1970, il tentato sequestro, commissionato dalla Cia, del generale René Schneider, comandante in capo delle forze armate, il quale voleva mantenere la tradizione apolitica dell’esercito cileno, aveva favorito Allende.
I cablogrammi inviati a Santiago dal quartier generale attestano perplessità sul fatto che l’esercito sarebbe stato più disposto ad agire contro il governo che contro manifestanti che la Cia avrebbe dovuto sobillare e sottolineano l’opportunità di evitare di incoraggiare “proteste su larga scala, come uno sciopero […], e qualsiasi altra attività che possa provocare una reazione militare contro l’opposizione”. In una proposta di bilancio del 31 marzo 1973, il quartier generale specifica: “Sebbene dobbiamo lasciare aperte tutte le opzioni, incluso un possibile futuro colpo di stato, dobbiamo riconoscere che è improbabile che gli ingredienti necessari […] si concretizzino, indipendentemente dalla quantità di denaro investita. Di conseguenza, dovremmo evitare di incoraggiare il settore privato a intraprendere azioni che potrebbero portare a un fallito colpo di stato […] non sosterremo alcun tentativo di colpo di stato a meno che non diventi chiaro che avrà il sostegno della maggioranza delle forze armate cilene e dei partiti di opposizione”.
I segmenti più belligeranti si stavano mobilitando, ma l’esercito mostrò inadeguatezza, quando diverse unità indipendenti, il 29 giugno, si schierarono per impadronirsi, senza successo, del palazzo presidenziale. Nel suo rapporto al presidente Nixon, Kissinger scrisse che era stato “tentato un colpo di stato contro il governo di Salvador Allende”. Lo stesso giorno, il segretario di stato inviò un’altra comunicazione, “Fine del tentativo di ribellione in Cile”, dicendo che si trattava di “un tentativo isolato e scoordinato” e che i comandanti di alto rango dei tre rami delle forze armate “erano rimasti fedeli al governo”. Il fallimento diede ragione a quanti si erano opposti a un intervento della Cia.
Venne raggiunto un accordo, il 20 agosto, con lo stanziamento di un milione di dollari per il finanziamento di partiti di opposizione e organizzazioni private, e un “fondo di emergenza” per operazioni speciali, a cui si poteva far ricorso solo con il consenso dell’ambasciatore. A tre giorni di distanza, la cellula locale della Cia ne sollecitò l’utilizzo per accendere e organizzare proteste, e altre espressioni di malcontento pubblico, nonché una presa di potere dall’interno, che comportava il collocamento di militari in funzioni di rilievo nel governo e la macchina dello stato, da dove avrebbero esercitato influenza, riducendo il presidente a una figura di facciata. “Gli eventi si stanno evolvendo a grande velocità, ed è molto probabile che la posizione adottata dai militari […] sarà decisiva”, indica un cablogramma da Santiago del 24 agosto, aggiungendo, rispetto ad Allende: “In questo momento, qualsiasi evento o pressione importante potrebbe determinare il suo futuro”.
Il documento “Proposta di sostegno finanziario occulto per il settore privato cileno”, del direttore della Cia a Kissinger, asserisce in uno stile volto a tranquillizzare il Dipartimento di stato: “La base di Santiago non ha alcuna intenzione di collaborare direttamente con le forze armate per facilitare un colpo di stato, né il suo sostegno alle forze di opposizione in generale persegue questo risultato”. D’altro canto, include l’avvertenza: “Realisticamente, dobbiamo riconoscere che una maggiore pressione sul governo Allende da parte dell’opposizione potrebbe portare a un colpo di stato”. A metà agosto, un agente veterano della Cia, in missione nella capitale cilena, aveva così analizzato la situazione: “Nelle ultime settimane, abbiamo ricevuto un numero crescente di segnalazioni di complotti e abbiamo visionato un’intera lista di possibili date per un colpo di stato”.
La contrarietà del comandante in capo dell’esercito, Carlos Prats, e la difficoltà di radunare “i reggimenti più importanti nell’area di Santiago”, costituivano i maggiori problemi. Nella visione della Cia, per superare l’ostacolo del comando verticale, i generali a favore del golpe avrebbero dovuto incontrare Prats, notificargli che non godeva più di fiducia, e sollevarlo dall’incarico. L’uomo scelto per sostituirlo era il generale Manuel Torres, terzo generale dell’esercito, in quanto non si riteneva adatto il generale Augusto Pinochet, secondo ufficiale più alto in grado. Per la Cia, non sembrava esserci altro modo per liberarsene se non il rapimento o l’assassinio.
Le dimissioni di Prats, verso la fine di agosto, a seguito di un’intensa campagna diffamatoria, pagata dalla Cia, e condotta da El Mercurio e la destra cilena, nella valutazione di un’informativa della Defense intelligence agency (Dia), avevano “rimosso il fattore più importante che avrebbe potuto scoraggiare un colpo di Stato”. Come il suo predecessore, il generale Schneider, Prats aveva rappresentato l’ala costituzionale dell’esercito e ostacolato ufficiali di rango inferiore, foraggiati da Washington, che incalzavano per manovrare il processo politico, e godere dei privilegi di una giunta militare. Il 31 agosto, fonti statunitensi nell’esercito cileno riferivano che i militari erano “uniti attorno all’idea di un colpo di stato e alcuni importanti comandanti di reggimento a Santiago hanno promesso il loro sostegno”.
Le condizioni per tale consenso erano state preparate da iniziative della Cia, mirate a generare un ambiente di incertezza e insicurezza sociale. Un fattore chiave fu lo sciopero, dai risvolti violenti, lanciato dalla Confederazione nazionale dei proprietari di camion, che paralizzò il paese durante tutto il mese, con sconcerto e disagi per la cittadinanza. Un altro elemento essenziale fu la decisione della dirigenza cristiano-democratica di abbandonare i negoziati con il governo di Unità Popolare. In una relazione della Cia, si era venuta osservando “una crescente accettazione […] del fatto che l’intervento militare potrebbe essere l’unico modo per impedire ai marxisti di prendere il potere assoluto”. Ciò condusse il Partito comunista cileno, perlopiù moderato, a concludere che la convergenza politica non fosse praticabile, e adottare un approccio militante, che causò profonde divisioni nella coalizione di Allende, un incremento delle frizioni con l’opposizione, e la chiusura della fazione più dura dell’esercito.
Le frange sovversive dell’esercito istituirono una “squadra speciale di coordinamento” composta da tre rappresentanti di ciascuna forza armata e da civili e paramilitari reazionari selezionati. In una serie di incontri, tenutisi l’1 e il 2 settembre, la neonata giunta approvò il piano per esautorare il governo di Allende, fissò la data del 10 settembre, e scelse come leader il generale Augusto Pinochet. L’8 settembre, sia la Cia sia la Dia, notificarono a Washington il golpe imminente. Un rapporto della Dia, riportava che “tutto indica che avrà il sostegno di gruppi di destra e terroristi civili”. La Cia avvertì che la marina cilena avrebbe “agito per rovesciare il governo” alle 8:30 del mattino e che Pinochet aveva assicurato che “l’esercito non si sarebbe opposto all’azione della marina”. Il 9 settembre, un collaborazionista in fuga dal paese ragguagliò un agente della Cia: “Avverrà l’11”.
Alla vigilia degli eventi, una buona parte dei cospiratori iniziò a innervosirsi, chiedendosi cosa sarebbe successo se i combattimenti si fossero protratti e non fossero andati come previsto. Un “alto membro del gruppo responsabile della pianificazione per la caduta del presidente Allende”, come lo descrisse un funzionario statunitense – ancora non chiaro se fosse della Cia, del Dipartimento della difesa o dell’ambasciata -, “chiese se il governo statunitense sarebbe intervenuto se la situazione si fosse complicata”. Gli fu assicurato che la richiesta sarebbe stata “immediatamente trasmessa a Washington”. Un promemoria venne inviato a Kissinger e, al momento del golpe, sia il Dipartimento di stato sia la Cia, stavano elaborando piani di emergenza, nel caso in cui l’azione militare avesse mostrato segni di fallimento. Già il 7 settembre, tuttavia, alti funzionari del Dipartimento di stato avevano stabilito che se il colpo di stato “sembra favorevole ma rischia di fallire, potremmo voler avere l’autorità di intervenire”.
La questione si rivelò irrilevante. “Il colpo di Stato cileno è stato a dir poco perfetto”, annunciò il capo del gruppo militare statunitense di stanza a Valparaiso, in una nota sulla situazione inviato a Washington. Alle 8:00 dell’11 settembre, la marina cilena aveva conquistato la città portuale, prima di annunciare il sovvertimento dell’esecutivo di Unità Popolare. A Santiago, i carabineros avrebbero dovuto arrestare il presidente Allende presso la sua residenza, ma questi riuscì a raggiungere il palazzo presidenziale e, da lì, a trasmettere messaggi radiofonici che esortavano lavoratori e studenti a difendere il governo dall’aggressione. Verso mezzogiorno, mentre i carri armati circondavano l’edificio e aprivano il fuoco, gli hawker hunter, di fabbricazione britannica, sferrarono un attacco missilistico di precisione, uccidendo le guardie. Pochi minuti dopo, ci furono altri raid aerei, e le forze di terra conquistarono il cortile interno.
Intorno alle 14:00, Allende fu trovato morto nel suo ufficio, ferito da arma da fuoco, e la autopsia decretò il decesso come suicidio. Alle 14:30, la stazione radio delle forze armate annunciò che La Moneda “si era arresa” e che l’intero paese era sotto controllo marziale. La reazione internazionale fu immediata e di schiacciante condanna. Numerosi governi denunciarono il colpo di stato e proteste di massa si svolsero in tutta l’America Latina. Come previsto, molti puntarono un dito accusatore contro l’amministrazione degli Stati Uniti. Nella sua apparizione appena un giorno dopo il golpe, Kissinger, tempestato di domande sul ruolo della Cia, rispose che questa era stata “coinvolta, in misura minima, nel 1970, e da allora ci siamo tenuti completamente lontani da qualsiasi complotto golpista […] non abbiamo fatto altro che rafforzare i partiti democratici e fornire loro una certa solidità per concorrere alle elezioni”.
“Sostenere la democrazia cilena”, riassumeva la versione ufficiale, congegnata per coprire l’ostilità statunitense nei confronti di Allende. Il 13 settembre, il direttore della Cia inviò a Kissinger una sintesi panoramica del programma di azioni in Cile dal 1970, per la quale, senza mezzi termini, “la politica adottata dagli Stati Uniti è stata quella di mantenere la massima pressione possibile per impedire il consolidamento del governo Allende”. Dopo la descrizione delle operazioni occulte condotte in ambito politico, mediatico e del settore privato, si conclude: “sebbene il coinvolgimento della Cia sia stato determinante nel consentire la sussistenza dei partiti di opposizione e dei media, nonché nel mantenere la loro resistenza al regime di Allende, l’Agenzia non è stata, di fatto, direttamente coinvolta negli eventi che hanno portato all’istituzione di un nuovo governo militare”.
La Casa Bianca, nondimeno, perseguì, agevolò e sancì, il cambio di regime, durante la presidenza Nixon, e il fatto che fosse stato istigato un colpo di stato, tre anni prima, dava ai golpisti la sicurezza di poter contare su Washington. Da allora, la Cia, e altri settori del governo statunitense, erano stati implicati in tattiche e stratagemmi, che includevano propaganda clandestina per seminare discordia all’interno della coalizione Unità Popolare, sussidio di gruppi estremisti e terroristi come Patria y Libertad, per non parlare dell’effetto destabilizzante dell’embargo economico invisibile, ai quali si attribuiva “un ruolo significativo nel preparare il terreno”. L’argomentazione, secondo cui tutto ciò mirasse a preservare le istituzioni democratiche, non è altro che una manovra di insabbiamento, smascherata dal peso delle testimonianze storiche. In realtà, il colossale supporto ai presunti paladini dei valori occidentali ne facilitò la trasformazione in protagonisti, e fiancheggiatori, della violenta interruzione del processo democratico.
Nel 1975, un alto funzionario della Cia, responsabile delle operazioni segrete contro Allende, dichiarò: “Tutto ciò che ci fu detto fu di continuare il nostro lavoro, rimanere vigili e fare tutto ciò che era in nostro potere per promuovere gli obiettivi e le finalità del Track II. Sono convinto che i semi piantati in quell’iniziativa nel 1970 abbiano avuto il loro impatto nel 1973. Non ne ho dubbi”. ll caso da manuale di guerra ibrida, venne formulato nelle sue due fasi Track I e Track II, a circa due settimane di distanza dalle presidenziali cilene del 1970, su richiesta di Nixon, per impedire, con vie legali o illegali, che Allende assumesse la carica di capo di stato.
Il Track I prevedeva una campagna acquisti nel mondo politico allo scopo di convincere la maggioranza congressuale, e il presidente uscente, Eduardo Frei Montalva, a sanzionare la vittoria dell’indipendente, Jorge Alessandri, superato da Allende per poco più di trentamila voti. Alessandri, nei disegni dell’amministrazione Nixon, avrebbe rimesso il mandato, e indetto nuove elezioni, che gli Stati Uniti pianificavano di condizionare, a favore del conservatore, Frei Montalva. Il Track II, anche noto come progetto Fubelt, si prefiggeva sempre l’estromissione di Allende, ma con mezzi differenti, ovvero la violenza politica, e prevedeva il finale di un colpo di stato da parte delle forze armate.
Il 16 settembre, nel corso di una conversazione fra Nixon e Kissinger, registrata dal sistema di controllo del segretario di stato, i due toccarono il tema della stampa avversa all’ingerenza in Cile. Kissinger affermò che ai tempi del presidente Dwight Eisenhower, in carica dal 1953 al 1961, il colpo di stato sarebbe stato applaudito, alludendo all’estromissione del presidente Jacobo Arbenz in Guatemala, nel 1954, grazie a un’altra operazione sotto copertura della Cia.
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