Il cortile di casa degli Usa: il golpe in Guatemala

Il colpo di stato orchestrato in Guatemala nel 1954 dalla Central intelligence agency (Cia), contro un governo incaricato con metodo democratico, è di particolare gravità storica. Troncò, infatti, in forma violenta, un importante processo di inclusione sociale sul piano nazionale e installò la guerra fredda nella regione latinoamericana. Con la giustificazione pretestuosa di voler fermare la supposta “avanzata comunista”, l’operazione venne ideata con l’obiettivo di sostenere gli interessi di grandi gruppi transnazionali, in particolare della United fruit company (UfCo). Alla manovra contribuirono politici degli Stati Uniti, ambasciatori di paesi limitrofi, grandi proprietari terrieri, potenti impresari, l’ala reazionaria dell’esercito, gerarchi della chiesa cattolica e i mass media.

Dalla metà del XIX secolo, si erano mantenuti al potere, una serie di dittatori civili e militari, al servizio di latifondisti e compagnie come la UfCo. Il sistema di ripartizione della terra emarginava i contadini e li riduceva a uno stato di semi schiavitù. Con l’espansione dell’industria del caffè, tra il 1870 e il 1930, la popolazione maya venne deportata nelle piantagioni e sottomessa al lavoro forzato. La UfCo, dedita alla produzione e commercializzazione delle banane, e proprietaria di più del 50 per cento delle terre arabili, di cui coltivava il 2.6 per cento, venne facilitata con diversi provvedimenti che ne incrementarono l’influenza economica e politica. Porti, ferrovie e servizi di energia elettrica, telefono e telegrafi, furono trasferiti al capitale statunitense, attraverso concessioni con tassazione pressoché simbolica.

Il generale Jorge Ubico, nominato nel 1931, instaurò una legislazione che sollevava da ogni responsabilità penale coloro che esercitavano qualsivoglia tipo di vessazione nell’agro, dove i braccianti erano, per esempio, obbligati a costruire strade private e pubbliche senza retribuzione, e in molti casi, venivano pagati con una speciale moneta che poteva essere spesa solo all’interno di un circolo commerciale chiuso. Per servire questi interessi, Ubico soffocò nel sangue la protesta sociale, con fucilazioni di rappresentanti sindacali, dirigenti studenteschi e oppositori politici. A fronte dell’incrementarsi di manifestazioni e scioperi, tuttavia, nel luglio del 1944, si dimesse, ma la giunta militare che lo rimpiazzò, sebbene avesse dapprima promesso elezioni generali, continuò a ricorrere a mezzi repressivi.

Nell’ottobre dello stesso anno, un gruppo di giovani ufficiali guidato dal maggiore Francisco Javier Arana e il capitano Jacobo Árbenz, accompagnato da studenti e lavoratori armati e sostenuto dai firmatari della Carta dei 311, si ribellò al regime, con il motto di “Costituzione e democrazia”, e rovesciò le forze leali alla giunta. Il triumvirato rivoluzionario, costituito da Arana, Árbenz e il commerciante Jorge Toriello, in carica dal 20 ottobre 1944 al 15 marzo 1945, estirpò le pratiche dispotiche e convocò elezioni per formare un nuovo parlamento. Venne, inoltre, istituita un’assemblea costituente. Lo statuto che ne scaturì sanciva la separazione dei poteri all’interno dello stato, prevedeva l’elezione diretta dei sindaci, derogava le leggi e i decreti di matrice feudale, permetteva l’organizzazione sindacale, definiva la proprietà privata come un diritto con funzione sociale, riconosceva le donne come cittadini, e sanciva diritti e garanzie senza distinzione di credo religioso o politico.

Nel primo suffragio libero del Guatemala, tenutosi nel dicembre 1944, Juan José Arévalo, filosofo e docente universitario, assunse la massima carica dello stato con una percentuale dell’85 per cento. Arana fu messo a capo delle forze armate, Árbenz della difesa e Toriello delle finanze. Arévalo, propulsore dell’idea di “socialismo spirituale”, confiscò terre da proprietà straniere e le distribuì ai contadini, impose agli impresari agricoli di procurare abitazioni adeguate ai propri lavoratori, mise in atto numerose riforme sociali, incluso nel campo della previdenza, elevò il salario minimo, costruì scuole e ospedali, aumentando copertura e accesso per gli esclusi. Resistette a venticinque colpi di stato e rimase al governo fino al 1951, quando gli successe Árbenz.

La proposta, anche se bocciata dal parlamento, di una riforma agraria integrale, intesa a disarticolare il latifondo e affrancare i braccianti da una mezzadria che, nonostante alcune modernizzazioni legislative, nella pratica, rimaneva in larga misura oppressiva, venne percepita come una forte minaccia dai settori dominanti, gli investitori esteri e gli Stati Uniti. Nel 1948, Richard C. Patterson Jr. fu designato ambasciatore in Guatemala. L’intento, dichiarato alla rivista Time, era di costruire un esempio di contenzione del comunismo e riparazione delle perdite subite dalle compagnie nordamericane. Investigazioni del mistero della difesa accertarono che Patterson era al centro di una rete golpista e, nel 1950, su pressione del governo guatemalteco, dovette abbandonare il paese.

Árbenz inaugurò una stagione di “nazionalismo popolare” e proseguì la politica di Arévalo, intensificandola, con il proposito di convertire il Guatemala da “una nazione dipendente, caratterizzata da un’economia semicoloniale, a un paese economicamente indipendente, moderno e capitalista”. Il partito del lavoro venne riconosciuto nel 1952. Tutto il suo credito si trovava nel ridotto movimento operaio organizzato e fra gli intellettuali, ma era scarso nel disegno di paese del presidente. Alle legislative del 1953, ottenne quattro scanni sui cinquantasei del congresso. Árbenz non era comunista e, in principio, nemmeno antiamericano. Intendeva, però, liberarsi del monopolio della UfCo e, con tale fine, sviluppò un ambizioso piano di infrastruttura viaria e la costruzione del porto di Santo Tomás, per contrastare la International Railways of Central America e il controllo statunitense dello scalo di Puerto Barrios.

Fra le decisioni che accesero la miccia dell’oligarchia locale e l’imperialismo degli Stati Uniti, il Decreto 900, approvato il 17 giugno del 1952, occupò un ruolo centrale. Quando Árbenz venne eletto, il 2 per cento della popolazione deteneva 72 per cento della terra coltivabile e, di questa, unicamente il 12 per cento era effettivamente utilizzata, mentre in milioni vivevano nella povertà assoluta. Nei diciotto mesi di applicazione del decreto, vennero espropriati 94.700 ettari di terre incolte della UfCo, beneficiando della redistribuzione 700 mila persone indigenti. Soprattutto, la riforma cancellò il principio della “soggezione personale dei lavoratori agricoli ai proprietari delle aziende e i loro rappresentanti”, ovvero i vincoli di servitù nelle zone rurali che tenevano in scacco la vita degli individui e il progresso del paese.

L’indennizzo venne fissato in 1 milione e 200 mila quetzales, secondo un calcolo che si basava sul valore dichiarato per il versamento degli oneri erariali territoriali. La UfCo elevò la sua pretesa di risarcimento, ammontante a 16 milioni di dollari, al presidente Dwight Eisenhower, e il segretario di stato John Foster Dulles, i quali avvallarono la posizione e, in un contesto condizionato dal maccartismo, innescarono una campagna mediatica a sfavore di Árbenz e di segregazione diplomatica del paese. La Cia finanziò un’emittente radiofonica che inquinava l’ambiente politico immettendovi false informazioni. Vennero firmati patti militari con totalitarismi di estrema destra di nazioni vicinei: il Nicaragua di Anastasio Somoza e l’Honduras di Tiburcio Carías. Ebbero anche luogo colloqui segreti fra il cardinale di New York ed esponenti del clero guatemalteco per assicurare una condanna pubblica della Chiesa.

Verso la fine del 1953, le basi del colpo di stato erano già state gettate. A novembre, John Emil Peurifoy venne inviato come ambasciatore in Guatemala con il compito di coordinare le azioni della Cia e degli ambasciatori americani in Nicaragua e Honduras. Peurifoy inviò una nota a Washington che dipingeva Árbenz come un comunista di pensiero e di fatto. L’operazione sotto copertura, Success, ottenne da Eisenhower un finanziamento di 2.7 milioni di dollari. Venne affidata a Albert Haney, con base in Florida, e a Carlos Castillo, in precedenza, direttore della Scuola Politecnica dell’esercito guatemalteco, ufficio ottenuto per aver partecipato al rovesciamento di Ubico. Castillo era fuggito in Honduras, in seguito a un fallito golpe contro Arévalo, essendo, con probabilità, già nelle file della Cia.

Washington tesse una rete che bloccò la possibilità per il Guatemala di approvvigionare il proprio esercito di equipaggiamenti e armi. In un clima di isolamento psicologico, e fondata apprensione, il governo acquistò armamenti dalla Cecoslovacchia. La Cia esagerò il resoconto ai paesi confinanti e altre potenze del continente, affermando che il Guatemala si trovava nelle condizioni di poter dominare militarmente il Centroamerica. Negli Stati Uniti, venne diffusa la notizia che questa era dimostrazione della volontà dei sovietici di soggiogare la regione. Somoza e Carías, su indicazione degli Stati Uniti, ruppero le relazioni con il Guatemala, e invocarono il Trattato interamericano di assistenza reciproca (Triar), firmato nel 1947 a Rio de Janeiro, mentre ricevevano tonnellate di armamenti nei campi paramilitari gestiti dalla Cia.

Il 18 giugno del 1954, un commando integrato da 600 mercenari, e capitanato da Castillo, invade il Guatemala. In simultanea, aerei da combattimento P47 Thunderbolts, pilotati da soldati americani, bombardano la capitale, il porto sul Pacifico e le basi militari, incontrastati dall’obsoleta aviazione locale. Personale della Cia, interferisce le trasmissioni radiofoniche nazionali. La delegazione guatemalteca all’Onu denuncia l’invasione degli Stati Uniti che si dichiarano estranei ai fatti, attribuendoli a un’insurrezione interna. Il ministro degli affari esteri, Toriello, ricorre al consiglio di sicurezza. Una mozione congiunta di Stati Uniti, Colombia e Brasile, devia la questione all’Organizzazione degli stati americani (Oea), dove Washington domina la maggioranza. Il Comitato interamericano di pace dilata la risposta, mentre Peurifoy distribuisce mazzette a funzionari pubblici e militari per comprare le influenze necessarie.

La società guatemalteca teme una rivolta rurale e indigena, eventualità paventata dalla propaganda statunitense. La tensione aumenta e, sulla spinta di reiterate provocazioni, in alcune aree, anche con l’ausilio di dirigenti comunisti, fra i quali Carlos Manuel Pellecer, si verificano invasioni di terre da parte dei braccianti. I capi militari chiedono a Árbenz di chiarire i suoi rapporti con i comunisti e lo intimano a espellerli. Il 25 giugno si apre un altro fronte: l’Honduras accusa il Guatemala di aggressione e sulla base del Triar si appresta alla guerra. Árbenz vuole armare i contadini per organizzare la difesa del territorio, ma l’esercito mal equipaggiato, di fronte all’evenienza di un attacco spalleggiato dagli Stati Uniti, rifiuta di eseguire l’ordine nella persona del generale Carlos Enrique Díaz. Perso il comando delle forze armate, il 27 giugno, il presidente si dimette, denunciando, nel suo ultimo discorso alla popolazione, il complotto dei monopoli economici e l’egemonia politica statunitense, e passando le consegne a Díaz.

L’ambasciatore Peurifoy, il quale nelle fotografie dell’epoca, appare con una pistola alla cintura, si preoccupa di liquidare l’intransigente Díaz, risoluto nell’intenzione di estromettere i mercenari della Cia e reticente nel giustiziare una lista di presunti comunisti presentatagli da Peurifoy. Il tempo corre, perché una commissione dell’Onu è sul punto di arrivare in Guatemala per attestare l’incursione degli Stati Uniti. Un opportuno bombardamento della capitale a opera della Cia, determinerà le dimissioni di Díaz e la sua sostituzione con un militare più accondiscendente, il colonello Elfego Hernán, il quale, invece, si rifiuta di riconoscere status ufficiale alla “forza di liberazione” di Castillo. Peurifoy organizza in El Salvador un incontro tra Hernán e Castillo che si conclude con un accordo di pace, patrocinato dal nunzio apostolico Gennaro Verolino, che prevede che Castillo assuma la presidenza di una giunta militare fino a nuove elezioni.

Castillo rientra in Guatemala su un aereo diplomatico degli Stati Uniti. Si insedia l’8 luglio e indice un plebiscito popolare per ottobre di cui è l’unico candidato. Intanto, con l’appoggio dell’esercito, la borghesia agro-esportatrice, la Chiesa e gli Stati Uniti, cancella la riforma agraria, restituisce le terre all’UfCo, dichiara illegali i sindacati e le organizzazioni politiche, annulla gli articoli del codice del lavoro che garantiscono i diritti dei lavoratori. Nello stesso anno, su richiesta della Cia, fonda un comitato nazionale di difesa contro il comunismo, responsabile con la polizia segreta di innumerevoli omicidi, durante gli anni cinquanta. Centinaia di persone cercano asilo nelle ambasciate di Messico e Argentina; più di 5 mila braccianti e attivisti rurali vengono incarcerati; centinaia di contadini, dirigenti sindacali e dissidenti politici vengono assassinati.

Secondo l’analista Ronald M. Scheider, la caduta di Árbenz suffraga la tesi che il comunismo in Guatemala non era ancora diventato un movimento popolare. Non solo non aveva una base ampia, ma mancava di radici profonde, per cui non rappresentava una forza politica stabile o capace di penetrare, nel breve termine, nei gangli del potere. Non venne neanche mai confermata l’esistenza di un intervento sovietico che giustificasse la reazione degli Stati Uniti. Lo stesso Foster Dulles ammise che era impossibile presentare alcuna prova che legasse il governo guatemalteco a Mosca.

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