Pillole: Striscia di Gaza

Nella storia della striscia di Gaza, si sono avvicendati i grandi domini dell’antichità, dagli egizi, ai greci, fino agli arabi e gli ottomani. Le vicende moderne riflettono una sequenza di promesse non onorate e occasioni mancate, sullo sfondo dell’affermazione di poteri che mantengono un peso determinante nell’attuale scacchiere geopolitico. Manifestazione delle sequele nefaste della mentalità e la pratica coloniale dell’Occidente, e del suo antagonismo culturale e politico con l’universo arabo, la striscia ben rappresenta, inoltre, l’incapacità della comunità internazionale di prevenire e dirimere i conflitti, e seminare le premesse per una pace duratura. Dal 1920, la controversia israelo-palestinese è stata rimpallata e posposta, dando luogo a risentimenti e frustrazioni che, con il deterioramento delle condizioni sociali ed economiche di Gaza, si sono rivelati terreno fertile per l’estremismo da fronti diversi e una miccia sempre pronta a esplodere.

Abitata dal 1500 a.C., e governata dagli Egizi per 350 anni, dopo la sconfitta subita dal faraone Ramesse III (1186-1155 a.C.), Gaza venne inclusa dai Filistei, popolo indoeuropeo procedente dalle città di Cnosso e Festo a Creta, nel raggruppamento di Ascalona, Ashdod, Ekron e Gat, città alleate per motivi amministrativi, politici e religiosi, che così divenne una Pentapoli. I Filistei furono, infatti, autorizzati a stanziarsi in questa area costiera, comunque sottoposta al dominio egiziano, da cui seppero estendere la loro influenza militare e commerciale sul mar Mediterraneo. Nel periodo ellenistico, Gaza fu, quindi, parte del regno seleucide, fondato sui territori di Mesopotamia, Siria, Persia e Asia Minore, e governato da sovrani della dinastia iniziata alla disgregazione dell’impero di Alessandro Magno. La conquista, nel 64 a.C., a opera di Gneo Pompeo Magno, la fece transitare nella provincia romana di Siria.

Con i Romani, fino a oltre la cristianizzazione, Gaza conobbe una relativa pace, il suo porto continuò a fiorire e grande prestigio ebbe la scuola di retorica locale. Rimase nell’impero bizantino fino al 635 d.C. e divenne la prima città in Palestina a essere conquistata dall’esercito musulmano dei Rashidun, o Califfato degli Ortodossi, dove il termine si riferisce alle qualità dei quattro califfi illustri, per un trentennio di storia islamica (632-661), scelti per anzianità di fede, parentela o affinità con il profeta Maometto, e criteri di efficienza. Gaza si trasformò in un centro di diritto islamico. A partire dal 1099, con l’invasione del paese dei crociati, era però in rovina. Nei secoli successivi, subì diverse difficoltà, in particolare le incursioni di tribù mongole alleate di Gengis Khan.

Nel 1517, la conquistarono gli ottomani e venne retta da governatori turchi o provenienti dall’Egitto. La terranno per quattro secoli, fin al termine della prima guerra mondiale, quando i turchi videro dissolvere il proprio impero, per aver perso il conflitto al fianco della Germania, dell’Austria-Ungheria e della Bulgaria (Trattato di Sèvres, 1920). I vincitori si spartirono il territorio e Gaza entrò nel mandato britannico della Palestina (1920-1948), per delega della Società delle Nazioni, antesignana dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). L’intento espresso dei mandati internazionali era quello di aiutare le colonie degli sconfitti a sviluppare organismi istituzionali, in previsione di un progressivo ritiro delle potenze considerate “progredite”. In realtà, altro non fu che un sistema di concentrazione geopolitica a favore di Francia e Regno Unito.

Per effetto degli accordi presi fra Sir Henry McMahon, alto commissario del Regno Unito al Cairo, e l’emiro hascemita higiazeno, al-Husayn ibn ʿAlī, sceriffo della Mecca, con autorità morale sul mondo musulmano orientale, nel 1915-16, gli inglesi avevano promesso una vasta porzione del territorio ottomano agli arabi, per realizzarvi uno stato unito e indipendente, come contropartita per l’aiuto prestato nella lotta contro i turchi. Circa un anno più tardi, nondimeno, firmarono anche la dichiarazione di Balfour, con il banchiere ebreo svizzero Rothschild, portavoce del movimento sionista (il cui obiettivo era la fondazione di un’entità statale nella regione definita Terra d’Israele nella Bibbia), nella quale si prometteva agli ebrei un “focolare nazionale” in Palestina.

All’epoca del mandato britannico, l’Agenzia ebraica per la Palestina, poi divenuta il governo provvisorio di Israele, operò per l’insediamento di coloni. Era anche dotata di una forza paramilitare clandestina, l’Haganah, che divenne il nucleo delle forze armate regolari israeliane dopo il 1948. L’ondata di immigrazione, unita a risorse limitate e politiche di assegnazione delle terre fertili agli ebrei, con vincoli che non ne permettevano l’affitto o la coltivazione da parte degli arabi, portarono a numerosi scontri. La situazione precipitò a metà degli anni ‘30, con uno sciopero generale di sei mesi, indetto dal Comitato supremo arabo, che chiedeva la fine del mandato e della colonizzazione ebraica, e diede il via a tre anni di guerra civile, spenta nel sangue. Per riequilibrare la situazione e tranquillizzare gli arabi, gli inglesi restrinsero l’immigrazione in Palestina, prevedendo la creazione di un unico stato federale entro il 1949, dove i coloni ebraici sarebbero stati una minoranza stimata in un terzo della popolazione totale (Libro bianco, 1939). Per tutta risposta, l’Haganah cominciò a organizzare grandi flussi di immigrazione clandestina, attraverso la Svizzera e la Turchia, e atti terroristici contro il Regno Unito.

L’annuncio, nel maggio del 1947, del disimpegno degli inglesi dal mandato sulla Palestina, e il loro abbandono entro un anno, migrò la questione all’egida dell’Onu, che nominò il Comitato speciale per la Palestina (Unscop per la sigla in inglese). Questo, il 3 settembre, raccomandò il frazionamento della Palestina occidentale – quella orientale si era conformata nel Regno Hascemita di Giordania -, in due stati istituendi: il primo a maggioranza ebraica, costituito da 498 mila ebrei e 407 mila arabi, per il 56 per cento del territorio; e il secondo, a maggioranza araba, costituito da 725 mila arabi e 10 mila ebrei, per il 43 per cento del territorio, mentre Gerusalemme sarebbe diventata una città internazionale, corpus separatum, controllata dall’Onu, allora abitata da 100 mila ebrei e 105 mila arabi. L’Unscop prevedeva l’istituzione di forme di unione e collaborazione economica e commerciale, con la possibilità di una moneta comune, per cercare di diminuire le disparità economiche e minimizzare gli attriti. 

L’Unscop giunse alla conclusione che era “manifestamente impossibile” accontentare entrambe le fazioni, in quanto le posizioni erano incompatibili, ma che era anche “indifendibile” accettare di appoggiare solo una delle due. Tale passaggio venne criticato dagli arabi perché metteva sullo stesso piano le necessità della popolazione presente da tempo immemore nella regione con quelle dei gruppi immigrati in Palestina, anche per vie illegali, solo da pochi anni. Dall’Unscop, che comprendeva 11 nazioni – Cecoslovacchia, Guatemala, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Uruguay, India, Iran, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, Australia -, erano stati esclusi i vincitori dei conflitti mondiali, in teoria per agevolare la neutralità di giudizio, ma nella realpolitik per permettere di sorvolare accordi stretti in precedenza dai grandi protagonisti di quella storia, che comunque potevano continuare ad agire da dietro le quinte della diplomazia segreta.

Altre disparità vennero evidenziate. Da un lato, alla popolazione ebraica minoritaria – 33 per cento del totale -, veniva assegnata la maggioranza del territorio. Inoltre, mentre solo il 2 per cento degli ebrei, corrispondente a 10 mila persone, non si sarebbe trovato né nello stato ebraico, né a Gerusalemme; ben il 31 per cento degli arabi, corrispondente a 405 mila persone, non si sarebbe trovato a vivere né nello stato arabo, né a Gerusalemme. Per di più, il tracciato di frontiera portava a inglobare quasi tutti i villaggi ebraici – strategicamente posizionati dall’Agenzia ebraica per la Palestina con movimenti illegittimi di persone -, all’interno dello stato ebraico, mentre ciò non si verificava per i villaggi arabi nello stato arabo. Dall’altro lato, la quota essenziale delle terre costiere coltivabili sarebbero state di pertinenza della comunità ebraica, alla quale venivano assegnati l’80 per cento dei terreni cerealicoli e il 40 per cento dell’industria della Palestina. In aggiunta, lo stato arabo non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso e sul Mar di Galilea, principale risorsa idrica, e gli veniva concesso solo un terzo della costa mediterranea.

Gli arabi di Palestina, e la totalità degli stati arabi indipendenti, respinsero il piano, rifiutando qualsiasi divisione della Palestina mandataria, e reclamando i confini che erano già stati stabiliti dalla comunità internazionale. Fecero ricorso alla Corte internazionale di giustizia, sostenendo la non competenza dell’assemblea delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio contro la volontà dei suoi residenti (diritto di autodeterminazione dei popoli); la petizione venne respinta. Per guadagnare il vantaggio ricevuto dall’Unscop, l’Agenzia ebraica dichiarò l’indipendenza unilaterale dello Stato d’Israele, riconosciuto alla nascita dall’Onu e molti paesi del mondo, ma la totalità dei paesi arabi non fece altrettanto. Lo Stato di Israele venne attaccato lo stesso giorno da Siria, Egitto, Iraq e Giordania, in quella che fu la guerra arabo-israeliana del 1948, vinta dalle forze di Israele, e che si concluse con una sequenza di armistizi, senza alcun trattato di pace. Israele conquistò un territorio più ampio di quello indicato dall’Unscop, la Giordania annesse la Cisgiordania e l’Egitto riprese possesso della striscia di Gaza. Gerusalemme restò divisa tra Israele e Giordania. Questo assetto territoriale rimase intatto fino alla guerra dei sei giorni, sferrata nel 1967 da Israele contro Egitto e Siria, con il successivo coinvolgimento della Giordania. 

La striscia di Gaza si ritrovò isolata dal restante territorio palestinese, incuneata tra Israele e Egitto, e con alle spalle il mare. L’Egitto controllò la striscia dal 1949 al 1967, a eccezione di quattro mesi di occupazione israeliana nel corso della crisi di Suez del 1956, senza annetterla e governandola tramite un’amministrazione militare. Ai rifugiati palestinesi non venne, peraltro, mai offerta la cittadinanza egiziana. Israele si impossessò della striscia di Gaza nel giugno 1967 nel corso della guerra dei sei giorni. L’occupazione militare durò 27 anni, fino al 1994. L’Agenzia ebraica per Israele, ex Agenzia ebraica per la Palestina, dal 1967, si è venuta occupando delle attività dei coloni israeliani insediatisi, al di fuori di qualsivoglia quadro legale, nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza palestinese, come pure nelle alture del Golan siriano. Israele aveva creato 21 insediamenti nella striscia di Gaza, su circa il 20 per cento del territorio, incluso l’insediamento, Gush Katif, nell’angolo sud-ovest, vicino a Rafah e il confine egiziano. In questo periodo, l’amministrazione militare era anche responsabile per la manutenzione di impianti civili e della fornitura dei servizi di base, ovvero acqua, energia elettrica, rete fognaria e comunicazioni. Questa situazione è rimasta invariata a oggi.

A seguito degli accordi di Oslo (1993), fra Yitzhak Rabin – assassinato nel 1995 da un estremista israeliano – e Yasser Arafat, dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ebbe luogo un graduale trasferimento dell’autorità governativa agli arabi. La striscia di Gaza, tranne che per i blocchi militari e gli insediamenti irregolari, passò al controllo palestinese. Le forze israeliane evacuarono Madinat Ghazza, e le altre aree urbane, lasciando l’amministrazione alla nascente Autorità nazionale palestinese (Anp), sebbene Israele mantenne il controllo dello spazio aereo, le acque territoriali, l’accesso off-shore marittimo, l’anagrafe della popolazione, l’ingresso degli stranieri, il sistema fiscale, nonché le disposizioni doganali, in base ai quali le importazioni da Israele a Gaza erano tassate, le esportazioni da Gaza verso Israele lo erano, e la raccolta dei dazi sui prodotti stranieri che entravano a Gaza era effettuata da Israele. Non perse vigore il corso legale della moneta israeliana nella striscia. Questioni annose come lo status di Gerusalemme, i rifugiati palestinesi, gli insediamenti, sicurezza e confini, vennero lasciati in sospeso. Ai leader palestinesi fu concesso il rientro dall’esilio e l’Anp, guidata da Arafat, scelse Gaza come suo primo quartier generale. Nel settembre 1995, Israele e l’Olp firmarono un secondo accordo, estendendo la gestione dell’Anp alla maggior parte della Cisgiordania. Considerato il limitato potere dell’Anp, osservatori stranieri, come il Comitato della Croce Rossa, Human rights watch, e vari esperti legali internazionali, incluse le Nazioni Unite, ritengono che, per la natura degli accordi, Israele non abbia estinto il ruolo di potenza occupante.

Nel gennaio 1996, ci furono le prime elezioni, presidenziali e legislative, che videro la conferma di Arafat ed il successo di Al-Fatah, organizzazione politica e paramilitare palestinese, di impostazione laica e socialista, facente parte dell’Olp, con 51 seggi su 88. Il 14 agosto 2005, quasi dieci anni dopo, il piano di disimpegno del governo israeliano, proposto dal primo ministro israeliano, Ariel Sharon, dispose l’evacuazione della popolazione dagli insediamenti nella striscia e lo smantellamento delle colonie che vi erano state costruite. I cittadini israeliani che rifiutarono di accettare i pacchetti di compensazione e lasciare le loro case vennero rimossi dalle forze di sicurezza israeliane. Lo sgombero dei residenti, la demolizione degli edifici residenziali, e l’evacuazione di personale di sicurezza, associati alla striscia di Gaza, furono completati il 12 settembre 2005; lo sfratto e lo smantellamento dei quattro insediamenti in Cisgiordania settentrionale dieci giorni più tardi. Nella colonia di Nevé Dekalim, l’insediamento più importante della regione, si ebbero gli scontri più violenti. Il piano fu progettato per migliorare la sicurezza di Israele e ampliare una zona cuscinetto, riservandosi il diritto di intraprendere operazioni militari in caso di necessità.

Nel 2006, vennero indette nuove elezioni legislative dell’Anp, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, che è la zona più estesa e popolata dei territori palestinesi. Per l’Onu, e altri osservatori internazionali, le elezioni furono regolari. Vinse Hamas, partito politico islamista e organizzazione militare, antagonista storico di Al-Fatah, che con le altre formazioni a esso legate formò un governo incaricato dal presidente Abu Mazen, espressione di Al-Fatah. Hamas ottenne il 44 per cento dei voti validi, mentre il principale partito rivale, Al-Fatah, che fino a quel momento aveva guidato i palestinesi, il 41 per cento. La distribuzione del voto evidenziava le principali basi elettorali di Hamas nella striscia di Gaza e quelle di Al-Fatah in Cisgiordania. Il dato lasciò presagire che, se i due partiti non avessero trovato un compromesso, sarebbe potuta scoppiare una guerra civile per il controllo dei due territori. Hamas venne catalogato come terrorista da Stati Uniti e Unione Europea, tuttavia, il tentativo del 2018 di condannarlo alle Nazioni Unite fallì.

A giugno del 2007, la tensione tra Hamas e Al-Fath crebbe e a Gaza scoppiarono scontri armati che in pochi giorni fecero oltre un centinaio di morti. Il 14 giugno, le brigate Ezzedin al-Qassam si insediarono nella sede dell’Anp, uccidendo o espellendo ogni appartenente ad Al-Fatḥ. Con Gaza sotto il controllo militare di Hamas, ebbe inizio una nuova fase che ha visto il dispiegarsi di diverse operazioni dell’esercito israeliano, fino a quella iniziata il 7 ottobre 2023. Nell’anno in corso, numerosi incidenti avevano già provocato la morte di 32 israeliani e 247 palestinesi, attacchi di coloni israeliani avevano costretto centinaia di palestinesi a sfollare dalle loro case, e si erano verificati scontri alla moschea Al-Aqsa, un centro sacro contestato di Gerusalemme. Il 13 settembre cinque palestinesi erano stati uccisi sul confine e proteste massive avevano avuto luogo lungo il muro di separazione presidiato dall’esercito di Israele. L’Egitto, che si era adoperato per abbassare il livello della violenza, aveva avvisato Israele dei rischi, e con gli Stati Uniti aveva informato Israele di un’azione imminente di Hamas. Tre giorni dopo il warning, Hamas ha fatto incursione in Israele lasciando più di 1.400 morti tra civili e militari e prendendo 220 ostaggi. La controffensiva israeliana al 12 dicembre, dopo 67 giorni di bombardamenti, ha mietuto oltre 18.000 vittime palestinesi di cui il 67 per cento sono bambini e donne; altri circa 2.500, tra cui oltre 1.300 bambini, risultano dispersi.

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