Giornata internazionale per le vittime di tortura

La Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (Uncat) è stata adottata dall’Assemblea generale (Ag) dell’Onu il 10 dicembre 1984 ed è vigente dal 27 giugno 1987. È stata firmata e/o ratificata da 173 stati nel mondo, mancandone ancora all’appello 22, fra cui la Slovenia che è parte dell’Unione Europea (Ue). L’Italia vi ha aderito nel 1985 ed è legge nel nostro paese dal 1989.

L’Uncat ha i suoi antecedenti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, del 1948; la Convenzione di Ginevra, del 1949, concernente il trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, del 1950; e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, del 1966. Obbliga gli stati a prendere i provvedimenti necessari per impedire e punire gli atti di tortura e i trattamenti crudeli e a proteggere le persone detenute da attacchi contro la loro integrità fisica e psichica. Sancisce, tra l’altro: la definizione internazionale di tortura; il divieto assoluto di tortura; il principio del non-refoulement, o non respingimento, di una persona qualora vi siano ragioni per ritenere che rischi di essere sottoposta a tortura; il regolamento della pena per le persone che compiono atti di tortura e della loro estradizione; la disciplina della prevenzione e dell’individuazione di casi di tortura.

Gli stati devono presentare al Comitato contro la tortura, che è l’organo di controllo competente, rapporti sulle deliberazioni realizzate per svolgere i compiti che spettano loro in virtù della Convenzione. Il primo deve essere consegnato entro un anno dalla sua entrata in vigore, dopodiché sono richiesti su base quadriennale. Dal 1994, il Comitato emana osservazioni conclusive e raccomandazioni. Come complemento ai rapporti nazionali, può avviare una procedura d’inchiesta (art. 20), se sospetta una pratica sistematica di tortura. L’Uncat prevede, inoltre, la possibilità di avviare una procedura di comunicazione interstatale (art. 21) o una procedura di comunicazione individuale (art. 22). Il Protocollo facoltativo, del 2006, include un procedimento di prevenzione, nel cui ambito organi nazionali e internazionali visitano ed esaminano i penitenziari con periodicità. 

Con la legge n. 110, nel 2017, quasi trent’anni dopo la ratificazione della Convenzione, l’Italia ha introdotto nell’ordinamento i reati di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter). Tuttavia, nel Codice penale, Titolo XII (Delitti contro la persona), Sez. III (Delitti contro la libertà morale), questi connotano l’illecito in modo solo parzialmente coincidente con l’Uncat che, in particolare, definisce la tortura come reato proprio del pubblico ufficiale. L’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, a persona privata della libertà personale, o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte, ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Nella Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, vogliamo ricordare che, in data 16 giugno 2017, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, aveva indirizzato ai Presidenti di entrambe le Camere, delle Commissioni Giustizia di ciascuna di esse, e al Presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani costituita presso il Senato, una nota su aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, a suo avviso, in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e con l’Uncat. Le preoccupazioni si riferivano al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, siano necessarie “più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà”; che la tortura si configuri anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo contiene la disgiuntiva “trattamenti inumani o degradanti”); e in quanto alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma “verificabile” sotto tale profilo.

La nota pure sottolineava altri aspetti di divergenza della definizione espressa nella legge rispetto a quella di cui all’art. 1 dell’Uncat e il rischio inerente che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, dando luogo a casi di impunità. In aggiunta, considerato che il testo adotta una definizione ampia, che comprende i comportamenti di privati cittadini, si evidenziava l’importanza di garantire che questo non conduca a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali. Si rilevava, infine, che le nuove disposizioni dovrebbero contemplare pene adeguate per i responsabili di atti di tortura o pene e trattamenti inumani o degradanti, avendo quindi un effetto deterrente, e dovrebbero garantire che la punibilità per questo reato non sia soggetta a prescrizione, né sia possibile emanare in questi casi misure di clemenza, amnistia, indulto o sospensione della sentenza.

A partire dagli episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine durante il G8 di Genova del 2001, si era aperto in Italia un dibattito pubblico circa la necessità di adeguare l’ordinamento interno in materia di tortura. Con il verificarsi di vicende simili, come i casi di Federico Aldrovandi del 2005 e Stefano Cucchi del 2009, la pressione della società civile si era fatta più acuta. Nell’aprile del 2015, la Corte di Strasburgo si era pronunciata in merito alle vicende occorse alla scuola Pertini-Diaz, condannando la condotta degli agenti di polizia coinvolti e la mancata capacità dello stato italiano di perseguire e punire a dovere i responsabili. In ripetute occasioni, la Corte aveva invitato l’Italia a dotarsi di una legislazione efficace per contrastare tali atti di tortura, con riferimento alla normativa comunitaria e internazionale esistente. Tra le misure per porre fine all’impunità, era stata proposta quella di introdurre l’utilizzo di un codice personale per i poliziotti in servizio di ordine pubblico, dal momento che nei processi del G8 vennero individuati i reparti utilizzati, ma non fu possibile identificare gli uomini che avevano perpetrato le violenze. La misura non è stata introdotta in seguito alla protesta emersa in seno alle forze di polizia.

Per queste ragioni, l’iter parlamentare per la stesura della nuova legge, durante il mandato di Paolo Gentiloni, era stato oggetto di alte aspettative. Il suo esito, per contro, ha provocato l’immediato sconcerto degli organi sovranazionali e internazionali. Nel 2018, anche il rapporto periodico del Comitato contro la tortura, sull’operato di alcuni dei paesi firmatari della Convenzione, presentato alla sessione di Ginevra di quell’anno, evidenziava come la legge n.110 del 2017 non abbia colto le direttive internazionali nei suoi punti cruciali. L’astrattezza che ne caratterizza il dettato, e la natura delle giustificazioni addotte nelle sedi pertinenti, con la conseguente incompiutezza del richiesto rafforzamento dell’assetto normativo, sembra fare eco a una mancanza di volontà nel garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali e perseguire qualsiasi forma di violazione, in special modo quando ha origine negli organi statali.

 

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano indipendente online di geopolitica e politica estera Notizie Geopolitiche.

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