Diritto e dovere alla conoscenza e democrazia partecipata

Il “diritto alla conoscenza” è al centro di un dibattito sorto in contrasto alla progressiva e universale erosione della libertà di espressione e il propagarsi dell’industria delle notizie false o ingannevoli, e in difesa del primato dei diritti umani, il buon governo, l’accountability e la responsabilità pubblica.  Alimentato da un delicato ecosistema, è intrinseco al “diritto allo sviluppo”.

Dopo svariati appropriamenti settoriali e disciplinari del concetto, passati attraverso orientamenti spesso contrapposti, dai modelli neoclassici di crescita economica sino al suo stesso rifiuto, lo sviluppo oggi è visto come un processo dinamico, conformato da aspetti civili, politici, economici, sociali e culturali, orientati al miglioramento delle condizioni di vita.  Quindi la persona umana è la misura dello sviluppo stesso.  E se la persona ne è il principale agente, il cambio di prospettiva coinvolge sia il contenuto sia le strategie e i parametri con i quali si pianifica, attua e valuta.  Lo sviluppo si presenta come un diritto-dovere che presume partecipazione, una partecipazione informata e informante, che ha un vincolo strategico con il “diritto alla conoscenza”.

E’ importante ricordare che lo sviluppo non è un problema che concerne solo le popolazioni dei paesi meno avanzati o favoriti.  Come lo abbiamo definito, interessa tutti, in quanto bisogno essenziale dell’essere umano che risponde all’aspirazione di assicurarsi libertà e dignità come individuo e membro della società.  Così ragionando il “diritto allo sviluppo” ha un legame intrinseco con il “diritto alla pace”.  E se la partecipazione è un elemento imprescindibile dello sviluppo umano, l’informazione, e la conoscenza che ne deriva, sono i più potenti strumenti di empowerment perché abbia luogo una partecipazione reale.

C’è però un passo in più che bisogna dare, partendo dalla riflessione che l’informazione non si dà nel vuoto, bensì nel tessuto sociale e antropologico delle società.  La conoscenza per lo sviluppo interessa i nodi rappresentati dalle classi, la base etnica, il genere, la divisione del lavoro, e le forme di potere.  In questa ottica, il “diritto alla conoscenza” non deve risolversi dell’ennesima pratica omologante.  L’informazione, di qualsiasi tipo essa sia, non concede, necessariamente o automaticamente, uguali benefici per ognuno.  L’accesso è viziato dal diverso status originario di cultura, capacità di analisi, sintesi e rielaborazione, capitale relazionale, autostima e leadership.

Affinché le persone vengano messe in grado di incidere in campo politico e sociale e di decidere, in maniera effettiva e non solo nominale, sullo sviluppo che le riguarda, e che riguarda le proprie famiglie, comunità, e stati, deve essere loro conferito spazio decisionale nelle sfere della politica, dell’economia, e della convivenza sociale.  Il che equivale ad affermare l’esigenza di immettere democrazia sostanziale nella vita degli individui e comporre un trinomio inscindibile: conoscenza per lo sviluppo, sviluppo condiviso e democrazia partecipata.

E non solo.  In primo luogo, il “diritto alla conoscenza” presuppone che i diritti sociali e culturali trovino concrezione nell’educazione, l’istruzione superiore e continua, l’alfabetizzazione digitale.  Lo sviluppo dell’individuo è un prerequisito per quello di ogni società, ma è sempre stato problematico, selettivo e legato a privilegi.  Il “diritto alla conoscenza” quindi include il diritto ad avere politiche che incentivino i processi di formazione del capitale umano e, in particolare, dell’abilità dei singoli di interagire con l’ubiquità della conoscenza, in modo da percorrere la superficie dilatata della rete muniti di dispositivi critici.

In secondo luogo, considerato che nella consultazione e negoziazione politico-sociale, entrano in gioco poteri asimmetrici, vanno stabiliti nuovi patti di relazione, fra le istituzioni e i cittadini, una base strutturale che permetta di articolare in maniera equa la mediazione degli interessi.  La posta è alta.  Si tratta di trasparenza nelle politiche dello sviluppo su base nazionale e nelle politiche per lo sviluppo su base multilaterale.  Obiettivo per cui è indispensabile una cooperazione su scala internazionale per la conoscenza che metta a disposizione mezzi idonei per uno sviluppo partecipativo e leale, nelle fasi di costruzione, ratifica e attuazione delle proposte, su temi di giustizia economica e sociale e del riequilibrio delle opportunità e della ricchezza.

Esiste purtroppo una relazione inversa fra il bisogno di riforme e la capacità politica in questo campo.  Gli sforzi che osserviamo sono tesi a chiudere gap e a correggere disfunzioni più che a raggiungere una condivisione di strumenti che sia una condivisione di fini.  Piuttosto, bisognerebbe rendere il futuro più rilevante del contingente.  Avviare un ragionamento complesso intorno a conoscenza e competenza, informazione e partecipazione, cittadinanza e incidenza politica, e impegnarsi perché i cittadini possano essere autenticamente liberi.  Se, invece, la convenienza immediata prevale sul futuro, la politica annaspa su questo e altri diritti.

In molti casi il “diritto alla conoscenza” ha creato le premesse per un agire politico, sociale ed economico, informato e responsabile.  In chiusura di questo articolo, ne discutiamo tre, con attenzione alle tessere mancanti e le occasioni esistenti, che dovrebbero guidare la sua composita realizzazione e, soprattutto, con l’apprezzamento che le lezioni e le ispirazioni più grandi arrivano da quella talora considerata “la periferia” del mondo.  Il “diritto alla conoscenza” implica allora anche la disposizione a un ascolto globale.

Il chiarimento storico

Il Guatemala con 39 anni di guerra, ha avuto il triste record di 45 mila desaparecidos, fra cui 5 mila bambini, superando il Cile di Pinochet e l’Argentina di Videla.  A seguito degli accordi di pace del 1996, tra il governo e la Unión Revolucionaria Nacional Guatemalteca, nel 1999 venne costituita, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, la Commissione del Chiarimento Storico che produsse il rapporto dal titolo significativo La memoria del silenzio.  Il rapporto, che si appoggia su oltre 40 mila interviste, qualifica le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze armate come “atti di genocidio” e imputa alle stesse il 93 per cento delle violenze commesse durante il conflitto.

Quello che è interessante in questa storia è che la società civile, con il coordinamento dell’ufficio dei diritti umani dell’arcivescovato di Città del Guatemala, si era già massicciamente mobilitata, e addirittura un anno prima che la commissione dell’Onu venisse installata, aveva pubblicato un rapporto, seguito dall’assassinato del monsignor Gerardi Conedera, le cui conclusioni sarebbero poi state tutte confermate.  Il “chiarimento storico” in questo caso nasce dall’esigenza di un popolo intero di conoscere la propria storia contemporanea senza censure e senza misteri.  Basti pensare che le conclusioni dei due rapporti modificarono i contenuti dell’insegnamento della storia negli istituti di istruzione di ogni ordine e grado.

Il “diritto alla conoscenza” è però restato imbrigliato nelle maglie della corruzione e dell’impunità.  Questo movimento civile, in sua gran parte indigeno, e la sua straordinaria presa di coscienza e resilienza, per un quadro sistemico sfavorevole, dettato dai gruppi dominanti, ha visto invalidata per vizio di forma la sentenza del 2013 contro il generale Ríos Montt, ex-presidente del Guatemala, condannato a 80 anni di carcere per genocidio e 30 per crimini contro l’umanità, per 15 massacri dei 266 dell’operazione “terra bruciata”.  Questo esempio racconta che la conoscenza deve potersi tramutare in azione e giustizia.

Il consenso indigeno all’uso di territori ancestrali

Nel corso degli ultimi dieci anni, nella regione latinoamericana, sono state disegnate misure per favorire la consultazione delle popolazioni indigene in merito ai progetti dell’industria estrattiva, con finanziamenti statali o multilaterali.  Sono stati applicati tentativi socio-culturalmente appropriati e processi di concertazione in bona fidae con i loro rappresentanti.  Purtroppo l’ampia pubblicità che è stata data a tali misure non è corrisposta all’efficacia delle stesse.

Nella maggioranza dei casi, non si può affermare che la controparte indigena non sia stata informata dei termini dei progetti, con dovizia di cifre e proiezioni di profitti, e che compensazioni, pure adeguate, non siano state messe in atto, ma il “diritto alla conoscenza” si è limitato a quanto già deciso altrove e a una visione della crescita economica che passa sopra il diritto allo sviluppo con identità.  Il consenso a procedere, per quanto informato, è di fatto obbligato a una serie di scelte secondarie.  Il “diritto alla conoscenza”, o le sue interpretazioni utilitaristiche, quindi, non devono archiviare o soppiantare il “diritto allo sviluppo”.

La partecipazione dei cittadini alla gestione pubblica

La nota esperienza di bilancio partecipativo di Porto Alegre in Brasile, rappresenta un influente esperimento sociale basato sul “diritto alla conoscenza” e il “diritto allo sviluppo” che prevede la partecipazione diretta dei cittadini ai processi deliberativi dell’amministrazione della città.  Inaugurato nel 1989 (un decennio prima che il Brasile entrasse nei Brics) e poi diffuso in tutto il mondo, dovrebbe essere inoltre studiato come un modello per il superamento della crisi di rappresentanza democratica che viviamo ormai da tempo (leggi Populismo. Il teatro globale della politica).

Il bilancio partecipativo ha modificato la qualità della vita per le fasce povere e Porto Alegre è considerata dall’Onu una delle quaranta città meglio gestite del pianeta.  Uno dei risultati rivelatori di questo potenziale è il Manifesto di Porto Alegre del 2005, una lista commentata di dodici proposte in ambiti relativi a economia, pace, giustizia e democrazia, che partendo dal governo locale si proietta globalmente.  Ciò dimostra, ancora una volta, che conoscenza e partecipazione sono i maggiori detonatori di mutamento politico-sociale.  E a che altro dovrebbe aspirare il “diritto alla conoscenza”?

 

Questo articolo è stato pubblicato dalla testata giornalistica online Voci Globali.

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