Spazi strategici: lo stretto di Bab el-Mandeb

Un passaggio obbligato nel Medio Oriente è lo stretto di Bab el-Mandeb, dall’arabo “porta delle lacrime” o “del lamento”. Un braccio di mare angusto, di circa trenta chilometri di larghezza, diviso in due canali dall’isola yemenita di Perim (o Mayyun in arabo), che costituisce l’ingresso dal golfo di Aden nell’oceano Indiano al mar Rosso e, risalendo il canale di Suez, ai porti del Mediterraneo. La sua grandezza è certo contenuta, ma rappresenta uno snodo chiave per i flussi commerciali e la sicurezza energetica globale, con miliardi di metri cubici di Gnl e milioni di barili di greggio e di petrolio raffinato al giorno, in transito verso Europa, Nord America, Singapore, Cina e India. Nonostante la quantità di idrocarburi che lo attraversa sia inferiore rispetto, per esempio, a quella che percorre lo stretto di Hormuz, Bab el-Mandeb detiene un alto valore strategico poiché, nell’eventualità di un blocco, obbligherebbe le navi a circumnavigare l’intero continente africano, aumentando i prezzi delle merci, e i tempi di consegna, in maniera esponenziale.

Da secoli, è una rotta essenziale. In passato, le merci provenienti dall’oriente giungevano in Egitto attraverso il mar Rosso per poi essere caricate su carovane prima di salpare nel mar Mediterraneo alla volta dell’Europa. L’apertura del canale di Suez, nel 1869, facilitò il trasporto, ma soprattutto incrementò l’importanza economica dello stretto. La sua collocazione geografica lo rende il quarto choke-point per rilevanza nel mondo, e il terzo in Medio Oriente, dopo lo stretto di Hormuz, lo stretto di Malacca, e il canale di Suez. Tuttavia, Bab el-Mandeb, situato tra il Corno d’Africa e la penisola arabica, negli ultimi anni ha subito l’instabilità delle regioni che si affacciano sulle sue sponde, dalla guerra in Yemen, iniziata nel 2015, ai dissidi tra Eritrea ed Etiopia, la frammentazione della Somalia e la pirateria dell’era contemporanea, fino alle grandi crisi umanitarie. In tempi recenti, è stato anche la piattaforma di lancio per operazioni contro il terrorismo e il traffico di esseri umani. Assediato da stati fragili, la crescita dei nazionalismi tra le monarchie del Golfo, e una pletora di ostilità, rappresenta un luogo classico di competizione geopolitica.

La maggiore minaccia securitaria, derivata dalle dinamiche dell’area, è il conflitto civile yemenita, con gli houthi, movimento insorgente islamico di matrice zaydita, alleato della precedente amministrazione politica e appoggiato dall’Iran, contro il governo nazionale, sostenuto dall’Arabia Saudita e dai separatisti del sud del paese. L’assertività e le crescenti capacità operative degli houthi nel dominio marittimo sono fra le ragioni dell’intervento dei sauditi, preoccupati che lo stretto potesse restare nelle mani di milizie nemiche. Il supporto iraniano è stato rilevante, se si guarda alle tecniche asimmetriche che gli houthi utilizzano a Bab el-Mandeb, molto simili a quelle della Marina del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, braccio navale dei Pasdaran, nel Golfo Persico.

Capitalizzando il vantaggio fornito dalla posizione sulla costa occidentale, gli Houthi, negli anni, hanno cercato di trarre il maggior vantaggio possibile dalle caratteristiche geografiche dello stretto e dai suoi limitati spazi di manovra, creando una flotta composta da imbarcazioni rapide e dalle dimensioni ridotte, equipaggiate talvolta con missili antinave, quali i C-802 di derivazione cinese, e i P-15/Styx e i P-21/Styx II di derivazione russa. Vengono effettuati avvicinamenti veloci a natanti stranieri con piccoli motoscafi, ma anche posizionamenti di mine, che si adattano bene alle basse acque dello stretto, in alcuni punti profonde solo 30 metri, e attacchi esplosivi, realizzati con imbarcazioni a pilotaggio remoto, cariche di materiale infiammabile. Finalità principale di queste azioni sono l’abbordaggio e il saccheggio dei vettori commerciali che transitano nello stretto per finanziare le proprie attività, attraverso il mercato nero.

Il porto di Hodeida, sullo stretto di Bab el-Mandeb, oggetto di un accordo mediato dalle Nazioni Unite, è al centro delle ostilità in Yemen, anche per la leva che offre per imporre rivendicazioni, minacciando il blocco dell’arrivo di aiuti umanitari. Inoltre, consente di ricevere armamenti, in particolare missili o componenti per la loro fabbricazione, da Tehran e da Hezbollah, il gruppo sciita libanese affiliato all’Iran. Gli attacchi condotti dagli Houthi non sono limitati alla necessità di garantire il finanziamento della guerra, ma rientrano all’interno della strategia iraniana nella regione in chiave anti-saudita. Questa si gioca in larga misura nelle acque dello stretto, contro fregate e assetti sauditi, tra cui petroliere e navi militari, conducendo per procura uno scontro marittimo a bassa intensità.

D’altro canto, il contrasto alla pirateria nello stretto di Bab el-Mandeb e delle aree attigue, che negli ultimi due decenni ha rappresentato una delle principali minacce al commercio, sono state lanciate le operazioni Eunavfor Atalanta dell’Unione Europea (Ue) e della task force multinazionale Ctf-151. Il fenomeno, che ha visto il suo apice tra il 2009 e il 2011, anno in cui ha causato perdite pari a 6.9 miliardi di dollari, è stato quasi sradicato negli anni seguenti. L’Eunavfor, a cui partecipano tutti i paesi dell’Ue e alcuni paesi terzi, come Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Serbia e Corea del Sud, è stata prolungata alla fine del 2020. La sua missione ha coinvolto la protezione di navi sensibili, non ultime quelle del Programma alimentare mondiale, e di altre agenzie dell’Onu. Le dimensioni dell’operazione sono indicative degli interessi economici e commerciali, ma anche a livello di politica internazionale.

Gli stessi interessi sono condivisi dai 38 stati della Ctf-151, fondata dalla Forze marittime combinate (Cmf per la sigla in inglese) e dalla Quinta flotta degli Stati Uniti, di base a Manama, in Bahrein, nel 2009. Si tratta di un meccanismo, accreditato dalla risoluzione del consiglio di sicurezza 2608 del 2021, per contribuire alla sicurezza marittima e la protezione del libero commercio, in base alla premessa che la pirateria è stata soppressa, ma non eradicata. Opera nell’area conducendo pattugliamenti e operazioni di raccolta di informazioni. I paesi vi contribuiscono su base volontaria, con mezzi navali, aerei o di personale, e la sua guida viene assegnata su rotazione, ogni tre o sei mesi. Al momento, il comando è affidato alla Repubblica della Corea del Sud. 

La condizione di zona cuscinetto di Bab el-Mandeb tra due regioni, in cui si dispiegano partite nodali per gli equilibri regionali, che contrappongono Arabia Saudita e Iran, così come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti da un lato, e Turchia dall’altro, ha portato questi paesi, a installare numerose infrastrutture militari, obbligando altri a schierarsi nella contesa e aumentando una polarizzazione che nel lungo termine potrebbe rivelarsi dannosa per la stabilizzazione. L’Iran, per esempio, ha stabilito una base ad Assab, in Eritrea, dal 2008 al 2015, e inserito Asmara nel novero dei suoi alleati. A seguito di ciò, l’Arabia Saudita ha offerto ingenti finanziamenti per estromettere Tehran e indurre l’Eritrea a combattere a fianco di Riyadh in Yemen. Allo stesso modo, alla base saudita fondata in Gibuti nel 2016, e a quelle emiratine in Somaliland ed Eritrea, fa da contraltare la base turca a Mogadiscio, in Somalia, dove Ankara gode di considerevole peso.

Allo stesso modo, l’area circostante a Bab el-Mandeb ha attirato, negli ultimi decenni, attori internazionali, che hanno stabilito la propria presenza, soprattutto in Gibuti. Il piccolo paese costiero, situato sulla punta del Corno d’Africa, è stato una colonia francese fino al 1977, e ha mantenuto legami con Parigi anche dopo l’indipendenza. Tra questi, un accordo di difesa che ha permesso il mantenimento di una base aerea che ancora oggi costituisce il più grande contingente e la seconda base operativa in Africa. L’installazione ospita contingenti tedeschi e spagnoli, dislocati in Gibuti per partecipare alle missioni internazionali. Anche l’Italia ha individuato l’opportunità di garantirsi una posizione privilegiata a ridosso delle principali rotte commerciali internazionali ed espandere proiezione e interessi. Nel 2013, ha stabilito una base militare di supporto a Loyada, a 7 chilometri dal confine somalo, e una base operativa avanzata interforze.

Una ex base militare francese è occupata con un contratto di locazione dagli Stati Uniti, i quali vi hanno affidato il comando statunitense Africom, responsabile per le operazioni di controterrorismo, che hanno come oggetto al-Shabab in Somalia e le cellule dello stato islamico in Somalia e Kenya, e il contrasto alla montante influenza cinese nel continente. Un interesse analogo è stato dimostrato dal Giappone che, nel 2011, ha stabilito ad Ambouli la sua prima base all’estero, dopo la seconda guerra mondiale, per far fronte alla minaccia della pirateria, e vi è rimasto, espandendo le installazioni nel 2017, con il fine di asserire la propria presenza in funzione anti-cinese. Infatti, è rilevante come la Cina sia approdata nell’Africa orientale dagli inizi degli anni 2000, e abbia costruito nel 2017 una base nel porto di Doraleh, a 10 chilometri da quella americana, come parte della componente marittima della Belt and Road Initiative, nella quale sono coinvolti Gibuti ed Etiopia.

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