Pillole: Controversia sullo stato di occupazione / Conflitto israelo-palestinese
“Spade di ferro”, l’operazione israeliana nella Striscia di Gaza lanciata nel 2023, per la sua inaudita violenza, ha riportato nel dibattito globale il tema dell’occupazione dei territori palestinesi. Israele afferma che, dal suo ritiro nel 2005, Gaza non è più territorio occupato, nella misura in cui non esercita una supervisione diretta su proprietà e istituzioni.
Questa visione è contestata da coloro che evidenziano come Israele abbia mantenuto la sorveglianza delle frontiere terrestri (a eccezione di quelle con l’Egitto), di quelle marine e dello spazio aereo. Fra quanti contestano che l’occupazione non sia mai stata finita, si annovera Human Rights Watch, un’organizzazione indipendente di esperti, ricercatori e avvocati, con sede a Helsinki, che dal 1978 investiga e redige rapporti su violazioni dei diritti umani nel mondo.
A qualche tempo di distanza dal ritiro, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmūd Abbās, affermò che lo status giuridico delle aree evacuate, in realtà, non era cambiato. L’avvocato palestinese-americano Gregory Khalil, dichiarò: “Israele ancora controlla ogni persona, ogni bene, letteralmente ogni goccia d’acqua che entra o esce dalla Striscia di Gaza. È pur vero che le sue truppe non ci sono più, ma non vi è ancora la facoltà da parte dell’Anp di esercitare il proprio legittimo potere”.
L’occupazione militare, ai sensi del diritto internazionale, è disciplinata dalle leggi di guerra, come le convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, e la quarta convenzione di Ginevra del 1949. Su questa base, l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari mantiene a tutt’oggi attiva una sezione dedicata a quello che definisce “territorio palestinese occupato”. Dal 2012, l’Onu riconosce in via formale lo Stato di Palestina, comprendente la Striscia, come entità “semiautonoma”, guidata dall’Anp.
Inoltre, la Corte penale internazionale (Cpi) de L’Aja ha deliberato, a maggioranza, che la sua giurisdizione territoriale sulla situazione in Palestina – stato membro del trattato istitutivo della Cpi, (Statuto di Roma) -, si estende ai territori occupati da Israele dal 1967, vale a dire Gaza e Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Tale decisione ha aperto alla possibilità di avviare indagini sulle operazioni militari israeliane. Di fatto, nel 2021, la Cpi approvò la richiesta dell’allora procuratrice capo, Fatou Bensouda, di aprire un procedimento, sia contro Israele sia contro Hamas, per crimini di guerra in Cisgiordania, Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza.
I palestinesi chiesero al tribunale di fare luce sulle azioni israeliane nella guerra del 2014 nella Striscia di Gaza, denominata da Israele “Margine di Protezione”, così come sulle attività di costruzione di insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est. La comunità internazionale considera gli insediamenti ampiamente illegali, ma non ha mai esercitato alcuna pressione effettiva affinché vengano congelati, ridimensionati o smantellati.
Nel 2018, la società palestinese aveva tentato di generare attenzione sulla propria causa con la “Grande marcia del ritorno”, una manifestazione rivolta all’opinione pubblica mondiale. Venne indetta per ricordare la nakba, la “catastrofe”, che nel 1948 cambiò la vita delle generazioni a seguire. Il 70 per cento dei 2 milioni di abitanti della Striscia di Gaza è, appunto, composto da rifugiati, le cui famiglie furono allontanate dai territori su cui, all’epoca, nacque Israele, e da allora non sono più potuti uscire dall’enclave.
Dopo un lungo decennio di divisioni interne tra i principali partiti politici antagonisti Al Fatah e Hamas, tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, i palestinesi decisero di presentarsi uniti e, in questo spirito, vennero banditi slogan e bandiere delle diverse fazioni. L’intenzione dichiarata era di invocare l’applicazione della risoluzione 194 dell’assemblea generale dell’Onu che sancisce il diritto al ritorno nelle terre espropriate.
Davanti allo stallo diplomatico e a una situazione umanitaria insostenibile, i palestinesi provarono a intraprendere una battaglia morale. In diretta televisiva, tuttavia, avvenne un massacro. I cecchini israeliani uccisero 17 giovani disarmati e ferirono 1.400 persone. I mezzi d’informazione ebbero una risposta da copione riflettendo il sostanziale disinteresse generale. Gli accadimenti vennero definiti “scontri” o “proteste pacifiche diventate violente e sanguinose”, con analisi e linguaggio superficiali, e mettendo sullo stesso piano civili e soldati armati.
La Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono territori occupati per un consenso mondiale che include le Nazioni Unite, l’Unione Europea, e autorevoli organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani. Gli insediamenti coloniali di una potenza occupante in un territorio occupato, ai sensi del diritto internazionale, sono crimini di guerra. Alla stessa maniera, l’espulsione di centinaia di famiglie palestinesi dalle loro case e la cancellazione di interi villaggi, come a Sheikh Jarrah, Ein Samiya, Ras At-Tin o Wadi al-Seeq, e ciò che ne consegue, sono crimini contro l’umanità.
Pertanto, la negazione della condizione di occupazione, associata alla classificazione di “difesa” dell’attuale operazione armata, che ha provocato un’estesa distruzione di infrastruttura civile, più di 34 mila morti (oltre alla recente scoperta di fosse comuni), quasi 77 mila feriti, e circa un milione di persone ricacciate dai bombardamenti verso il valico di Rafah, potrebbero celare le intenzioni di spingere la popolazione palestinese in Egitto e annettere a Israele, attraverso l’uso della forza, Gerusalemme e la Striscia di Gaza. Del resto, il ministro israeliano Amichai Chikli, promotore di una campagna di denigrazione contro la Relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha dichiarato che “il conflitto israelo-palestinese non sarà risolto fino a quando l’identità nazionale palestinese cesserà di esistere”.
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