A quattro anni dall’adozione dell’agenda 2030, un piano di azione a favore delle persone, il pianeta e la prosperità, si è ancora lontani dal raggiungerne gli obiettivi, di carattere integrato e indivisibile, nelle sfere economica, sociale e ambientale, accordati in seno alle Nazioni Unite. Il foro annuale di valutazione ha enfatizzato la centralità dell’inclusione, l’empowerment e l’equità, nell’avanzamento dello sviluppo sostenibile, evidenziando ingenti difficoltà all’orizzonte, in primo luogo negli impegni assunti dagli stati membri riguardo alla finanza dello sviluppo.
Il rapporto del 2018-2019 del Council of Councils, rete di 28 istituti che si occupano di politica estera, colloca la cooperazione internazionale alla seconda voce più bassa di dieci priorità comuni indicate dai governi. Per contro, si stima che sia necessario un aumento di 2.5 mille miliardi di dollari per far fronte al deficit di sviluppo, considerato che, secondo dati delle Nazioni Unite, 1.3 miliardi di individui vivono in povertà in 101 paesi, e la fame nel mondo è aumentata a passo costante proprio dal 2015, dopo decadi di calo sostenuto.
Gli aiuti per lo sviluppo nel 2019, per un totale di 7.36 miliardi, hanno registrato una caduta di 2 miliardi, venuta accumulandosi di recente, e che lascia scoperti paesi come la Siria, lo Yemen e la Repubblica Democratica del Congo, i quali solo quest’anno avrebbero richiesto quasi 15 miliardi. Gli interventi dell’organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo sono diminuiti del 2.7 per cento. La situazione descritta allontana le mete dell’Onu di 19 miliardi di dollari.
Queste potrebbero, inoltre, non essere compiute per la debole reazione di fronte al cambiamento climatico. Il progresso nella riduzione della povertà e la crescita economica risulta elusivo, quando si manifestano le sue conseguenze principali, nella forma di temperature estreme, disastri naturali, malattie e siccità. Il relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani si è pronunciato in chiari termini, parlando di una “apartheid climatica”.
Guerre e instabilità hanno posto gravi sfide in un consistente numero di paesi, dove la risposta umanitaria è stata insufficiente per soddisfare i bisogni di quanti vivono nell’indigenza e sono spesso forzati a emigrare. D’altra parte, lo sviluppo dipende in misura strutturale da altri vettori di governance, fra cui corruzione e flussi finanziari illeciti, o interessi geopolitici. Il collasso del consenso multilaterale sulle decisioni che determinano la cessazioni dei conflitti, gli assetti mondiali e il futuro della terra, rimane quindi la causa prima di questo declino.
Un certo ottimismo viene espresso in merito al coinvolgimento del sud globale nelle strategie di decremento della povertà, e la creazione o espansione di istituzioni finanziarie, come la banca di sviluppo dei BRICS e la banca asiatica per le infrastrutture, che si considerano vicine ai beneficiari locali. Preoccupano, invece, la condizionalità posta a certe operazioni dell’Unione Europea e gli Stati Uniti, che supportano gli stati di origine delle migrazioni in cambio di accordi per il blocco dei flussi, o della One Belt One Road della Cina, che attraverso grandi opere mira a potenziare la sua influenza politica ed espansione militare. Eclatante, quanto sta accadendo nell’Africa sub-sahariana. E’ la competizione strategica con la Cina, e non certo l’agenda 2030, che incentiva Stati Uniti e Unione Europea a incrementare gli investimenti nella regione.
I paesi non stanno onorando le promesse. La stagnazione del finanziamento pubblico è accompagnata dall’assottigliamento delle donazioni del settore privato. Affrontare le minacce interconnesse, gestire i rischi e cogliere le opportunità presentate dalla globalizzazione, esige piuttosto una cooperazione sempre maggiore.
Questo articolo è stato pubblicato su EinaudiBlog, il blog della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica, economia e storia.
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