Su twitter si può seguire e partecipare alla campagna #WhereIsMyName per rivendicare il diritto all’identità delle afghane. Lanciato alcuni mesi fa da un gruppo di giovani donne, l’hashtag viene tradotto nei dialetti locali per coinvolgere tutte a rompere il tabù più incomprensibile e umiliante imposto dalla tradizione tribale. Secondo gli ultraconservatori, il nome delle donne sarebbe sacro, legato all’onore della famiglia; per questa ragione, impronunciabile in pubblico. Ne consegue l’abominevole negazione del diritto primario di essere chiamate con il proprio nome a scuola, sulle prescrizioni mediche, e, persino, sul certificato di nascita dei figli e la lapide funeraria. In cambio, vengono utilizzati pseudonimi fantasiosi che ne rivelano appieno la logica patriarcale: “la mia parte debole”, “la madre dei miei figli”, “la mia capretta”. Per gran parte della società afghana, le donne non sono dunque cittadine, ma proprietà di un padre, un fratello, o un marito, che ne gestisce corpo, faccia e nome.
Where is my name?
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Ritengo l’autrice, segnalandoci la campagna “Where is my name?” voglia ricordarci come le distanze culturali nella considerazione della donna siano enormi tra il nostro mondo occidentale e talune altre parti del Globo. Tanto distanti da arrivare, come nel caso citato di alcune zone dell’Afghanistan dove la donna è ancora considerata alla stregua di un oggetto senza neanche il diritto ad avere un nome ed una identità propria. Cercare di cambiare questo modo di considerare la donna penso sia un nostro dovere, è una “battaglia” culturale che credo vada combattuta, ricordando sempre che ci vorrà molto molto tempo per ottenere qualche risultato apprezzabile.