Società civile e mediazioni internazionali

Nell’ambito della nuova architettura per la pace si sono fatte strada apprezzabili organizzazioni non governamentali, fra le quali, il Carter Center di Atlanta, la Comunità di Sant’Egidio di Roma, l’International Crisis Group di Bruxelles, il Centre for Humanitarian Dialogue di Ginevra, la Crisis Management Initiative di Helsinki, il Conflict Prevention and Peace Forum di New York, e la Nonviolent Peaceforce di Ginevra. La loro storia e operato riflettono un approccio alternativo al confronto armato che, spesso, trova poco margine nel dibattitto pubblico, e il consolidarsi delle posizioni degli stati, a fronte delle sfide per la stabilità di scenari eterogenei, dall’Europa orientale, al Sahel, e la Palestina, per citarne alcune. Malgrado ciò, sono la dimostrazione di quanto l’applicazione del diritto internazionale, predisposto sulla scorta delle lezioni apprese dalle grandi conflagrazioni belliche del secolo scorso – che hanno condotto alla creazione delle Nazioni Unite e l’Unione Europea -, apporti risultati concreti nella direzione dell’idea di pace duratura, a partire dalla comprensione e il superamento delle cause soggiacenti ad asimmetrie, tensioni e violenze, mentre la scelta della guerra, come strumento di imposizione, punizione o vendetta, acuisce e incancrenisce le problematiche esistenti.

Il Carter Center (1982), neutrale e non profit, fondato da Jimmy e Rosalynn Carter, in associazione con la Emory University, dove quell’anno l’ex presidente era diventato professore emerito, si impernia a un’aderenza fondamentale ai diritti umani, e cerca di prevenire e appianare i conflitti e far progredire la libertà e la democrazia. Durante il suo mandato, dal 1977 al 1981, Carter aveva raggiunto sostanziosi traguardi in politica estera, che includono i trattati sul canale di Panama, gli accordi di Camp David, il trattato di pace fra Egitto e Israele, il trattato Salt II con l’Unione Sovietica, e l’inaugurazione di relazioni fra gli Stati Uniti e la Repubblica Democratica di Cina. Jimmy Carter e il Centro, dal 1989 al 2020, sono stati involucrati in mediazioni in 14 paesi e due vaste aree geografiche, la regione dei Grandi Laghi in Africa e il Medio Oriente, e hanno coadiuvato 14 missioni di osservazione elettorale. Nel 2002, Carter è stato insignito con il premio Nobel, in riconoscimento della sua abnegazione nell’individuare varchi pacifici nei dissidi internazionali e stimolare lo sviluppo economico e sociale.

È conosciuto a coloro che si prodigano nel campo della pace, l’apporto della Comunità di Sant’Egidio e, in special modo, la trattativa sull’annosa guerra in Mozambico, dove le diplomazie ufficiali avevano più volte fatto un buco nell’acqua. Nel 1990, infatti, rappresentanti della Comunità aprono i negoziati tra i contendenti dello scontro civile e, due anni più tardi, vengono siglati gli accordi di Roma. La Comunità, detta “l’Onu di Trastevere”, ha favorito l’accordo di pace in Guatemala nel 1996, l’accordo di garanzia con il quale i leader albanesi si compromettevano a rispettare il risultato delle elezioni che nel 1997 posero fine all’anarchia politica, la liberazione dell’intellettuale e pacifista kosovaro Ibrahim Rugova, in seguito presidente delle istituzioni provvisorie di autogoverno, e il patto per la democrazia in Guinea nel 2010. Altre esperienze, nonostante l’esito negativo, come quelle in Algeria, tra il 1994 e il 1999, in concomitanza con un colpo di stato e l’insediamento di una giunta militare, o il tentativo di chiudere un accordo di pace nel nord dell’Uganda, abortito per il rifiuto all’ultimo momento dei guerriglieri, sono comunque una chiara testimonianza del pari rilievo e funzionalità reciproca delle diverse piste.

L’International Crisis Group (1995), impegnato nel fornire un contributo al disegno di politiche che possano costruire un mondo incruento, è stato fondato come un’organizzazione indipendente, in risposta agli orrori avvenuti in Somalia, Ruanda e Bosnia. Gli esperti realizzano ricerche sul terreno, con la partecipazione di tutti gli attori, condividono le differenti prospettive e suggeriscono opzioni pratiche. Pubblica indagini comprensive e fornisce informazioni in tempo reale a coloro che sono incaricati di prendere decisioni, per evitare o, quantomeno, limitare minacce alla sicurezza. In aggiunta, vengono patrocinati colloqui con capi di governo, politici, mezzi di comunicazione, società civile per porre l’accento su emergenze, prossime o potenziali, prima che la spirale vada fuori controllo, e per aprire opportunità di intesa. La combinazione di presenza fisica, continua e costante, in teatri afflitti dalla violenza, accesso a sfere di alto livello e impatto, e competenza nell’elaborazione di raccomandazioni mirate e viabili, ha preso le sembianze di un intelligence per la pace che ha permesso un ridimensionamento delle crisi in Afghanistan, Etiopia, Mali, Nagorno-Karabakh.

Il Centre for Humanitarian Dialogue (1999) è un organismo senza fini di lucro, che si poggia sui principi di umanità e imparzialità, valendosi della diplomazia privata con la meta della pace. Aggiorna e assiste la comunità internazionale per sormontare dispute bilaterali e multilaterali, con un’influente rete globale, e nel disegno di accordi, inclusi cessate il fuoco e corridoi umanitari, dal terrorismo dell’Eta in Spagna alla crisi ucraina del grano, a teatri complessi in Etiopia, Darfur, Filippine, Myanmar, e Somalia. Allo stesso tempo, offre supporto locale a settori emarginati, affinché abbiano gli strumenti per affrontare contingenze che ripercuotono sulle loro vite. Il Centro è vincolato all’80 per cento dei conflitti odierni e nel 2022 è stato insignito con il Canergie Wateler Peace Prize. Quest’anno ha celebrato il ventesimo anniversario del prestigioso Forum di Oslo, convocato con la cancelleria norvegese, nella cornice del Chatham House Rule, che disciplina la confidenzialità in quanto alla fonte – ma non al contenuto -, di discussioni a porte chiuse, fra esperti, politici, e attivisti, incoraggiando una comunicazione franca per il miglioramento delle relazioni internazionali.

La Crisis Management Initiative (2000), altrimenti conosciuta come la fondazione per la pace di Martti Ahtisaari, ex presidente della Finlandia e Premio Nobel per la pace nel 2008, si occupa di anticipare e risolvere i conflitti violenti attraverso il dialogo informale, la creazione di capacità e l’accompagnamento della comunità globale verso il rafforzamento della pace. L’Ue e singoli paesi europei, tra cui la Finlandia per il 55 per cento, sono finanziatori significativi. Ha svolto ruoli di mediazione, e organizzato consultazioni fra stati e gruppi armati, in Indonesia, Iraq, Sud Sudan, Ucraina, Transnistria, Burundi, Yemen, Palestina. La Fondazione si muove lontano dai riflettori, non rilascia commenti sulle negoziazioni in corso e, spesso, i successi ottenuti non vengono divulgati. A chiusura del mandato presidenziale, Ahtisaari declinò l’offerta di assumere la carica di Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite, dichiarando che era impellente dedicarsi alle determinanti strutturali delle guerre, invece che dei loro effetti. Come parte di questa visione, Ahtisaari creò, quindi, la Fondazione e accettò di presiedere l’International Crisis Group.

Valido è il lavoro del Conflict Prevention and Peace Forum (2000) e, in particolare, la sua abilità nel collegare i governi occidentali con compagini del fondamentalismo islamico, a esempio Hamas e Hezbollah, nella doppia convinzione che l’isolamento esacerba l’estremismo e i nessi dialettici possono disinnescare fattori di rischio, sebbene l’iniziativa, peraltro perseguita con le medesime ripercussioni dalla Crisis Management Initiative, sia stata criticata da quanti pensano non si debba interloquire con gruppi terroristi. Il Forum fornisce all’Onu un accesso rapido e incondizionato a conoscenze e competenze analitiche, colmando la lacuna tra ricerca empirica e spazi decisionali nella gestione dei conflitti. Vi sono poi organizzazioni – dai Balcani al Caucaso, dal Sud America all’Asia -, specializzate nel peacebuilding e nel peacekeeping civile che, grazie alla loro dedizione nella tessitura dal basso di fiducia e zone di dialogo, hanno mediato situazioni in potenza esplosive. Si veda la traiettoria ricca di intuizioni di Nonviolent Peaceforce (2002), la cui missione è di proteggere i civili e interrompere le aggressioni con strategie che non prevedono l’uso delle armi. I valori che la guidano sono la non violenza, come forza morale di cambio sociale; il primato dell’azione civilian-to-civilian, per preservare la vita, ridurre le ostilità, e mettere a punto dinamiche che ne sovvertano il contesto; e il rispetto per la “pluriversalità”, ovvero quel conglomerato di identità, rappresentazioni e narrative, di eguale dignità che la pace deve saper tenere insieme.

I singoli stati, e le organizzazioni formali multilaterali, pur con obiettivi espliciti relativi alla prevenzione dei conflitti armati, il mantenimento della sicurezza, e il conseguimento della pace, hanno raccolto molti fallimenti in congiunture drammatiche della storia contemporanea, per non essere riusciti a intervenire olisticamente, agire in maniera precauzionale o, ancora, rapida ed elastica, alle prime avvisaglie di una crisi. La loro inefficacia è stata spesso dettata dall’essere portatori di interessi politici ed economici e di presunte legittimità morali, rivelatisi un ostacolo alla rimozione delle cause, o dall’essere collocati in seno ad alleanze strumentali con realtà di maggior peso che, in forma diretta o indiretta, dettano l’agenda e influenzano la comunicazione. Soprattutto, le modalità di reazione rispondono a una mentalità retriva che vede la corsa agli armamenti come deterrente, e l’impiego di operazioni militari come espediente predominante per rinstaurare l’ordine, applicare un modello democratico o detenere la violenza, nell’equivoco sostanziale, smentito dai fatti, secondo il quale esistano “guerre buone” e queste possano garantire la pace. Le guerre, invece, per lo più si perdono, e la devastazione sociale, psicologica, e culturale, provocata ha sequele complesse di lungo termine, che pregiudicano intere generazioni, e di cui si finisce per accudire solo agli effetti più immediati.

I soggetti non istituzionali, che hanno portato a conclusione processi fruttiferi di facilitazione multilivello, meritano, oltre che di attenzione, di studi specifici per distillare lezioni apprese replicabili in futuro. Purtroppo, questo è un campo in cui esiste poca letteratura scientifica e che ha avuto scarso riconoscimento. Sebbene la peculiarità dei contesti e la singolarità dei rapporti creati renda impossibile l’universalità di uno schema, alcuni capisaldi hanno una valenza trasversale, nella fattispecie, l’importanza di coinvolgere attori locali, operare tenendo presente che le parti in lotta sono i veri protagonisti della mediazione e solo da esse può arrivare una soluzione sostenibile, assicurare la complementarietà dei canali preposti e il loro coordinamento. Va, altresì, tenuto in considerazione che i conflitti possono trascinarsi per anni e trasformare il negoziato in un susseguirsi di tattiche di logoramento. Ciò è tuttavia utile, perché miscela un amalgama di vincoli di avvicinamento e conoscenza speculare.

Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, frammentato e pericoloso. Hanno assunto preminenza espressioni armate dell’estremismo religioso, pesante eredità del tracollo di guerre precedenti, alimentate da antagonismi regionali e internazionali, così come reti criminali legate al narcotraffico, fomentate dalla crescente povertà e l’aumento dell’esclusione. È anche in atto una feroce ricomposizione dei poteri nella geopolitica globale che si avvale del ricorso alla forza e la disinformazione. Conflitti nuovi e cronici sorgono e perdurano a motivo di questi fattori, con alti costi umanitari ed economici. La diplomazia multilivello di soggetti non statali ha aiutato ad affrontare e governare circostanze che sembravano fuori controllo, dove le fazioni non accettavano nemmeno l’intercessione delle Nazioni Unite. Limitare la violenza su ampia scala, ed edificare percorsi autentici di riconciliazione, necessita di una diplomazia svecchiata, dinamica e creativa, e una classe politica responsabile e non ideologica, con profondità di ragionamento storico, rigorosa sul piano del diritto internazionale, senza eccezioni facinorose, e alfabetizzata al linguaggio della pace.

 

Questo articolo è stato pubblicato su EinaudiBlog, il blog della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica, economia e storia.

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