La diplomazia multilivello

I negoziati di alto profilo, mirati a stabilire accordi tra parti coinvolte in conflagrazioni belliche, sono di norma oggetto dell’operato delle cancellerie, e corrispondono all’attività anche conosciuta di peacemaking. Esistono, tuttavia, altre realtà che, sul piano locale, nazionale e mondiale, e a diversi livelli di approfondimento e interlocuzione, concorrono alla sostanza dei colloqui di pace e il loro successo.

Il panorama attuale è, infatti, caratterizzato da complessità senza precedenti, che sommano rimarchevoli fattori endogeni ed esogeni; transizioni tortuose, piagate dal protrarsi di violenza ed emergenze umanitarie; incoerenza della comunità internazionale, nella risposta in determinate circostanze; prerogative globali di matrice economica, commerciale ed energetica; e guerre per procura, nel contesto dell’incandescente creazione di un nuovo ordine mondiale. In queste situazioni è impossibile indirizzare in maniera disgiunta sviluppi che sono concatenati, nondimeno il procedimento richiede plurime competenze e forme di autorità riconosciuta, sia per sovrintendere la poliedricità dell’impatto sociale e la frammentazione degli stakeholders, sia per comprenderne gli stadi concomitanti nel quadro complessivo, eppure difformi in condizioni e risultati. Ciò è evidente, ad esempio, nei casi del Sud Sudan, il Mindanao nelle Filippine, la Libia, la Siria, lo Yemen e, in generale, dei paesi africani del Sahel, dove il micro e il macro si intersecano e complicano a vicenda.

La diplomazia è stata, quindi, ripensata in base a due binari distinti e complementari. Il primo (track one) è quello ufficiale degli stati, con i loro apparati e procedure formali di mediazione, e il secondo (track two) è quello dell’interconnessione di attori non governativi, incarnati da organizzazioni, reti e collettività, portatori di interessi nella risoluzione dei conflitti. Il track two nasce dall’assunzione di responsabilità della società civile, a fronte dell’inadeguatezza della diplomazia formale in noti episodi storici contemporanei, e si caratterizza per essere più efficace in molti frangenti, tra i quali i confronti sorti all’interno di uno stesso stato che richiedono di battere nuove strade alla ricerca della pacificazione dei territori. L’esito di tale rivisitazione, avvenuta a mano di Montville (1981), Diamond e McDonald (1996) e Lederach (1997; 2000), è la multi-track diplomacy, tradotta in italiano con l’espressione diplomazia multilivello.

La descrizione dei binari viene realizzata per la prima volta da Joseph V. Montville, al tempo funzionario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America. Nell’articolo pubblicato su Foreign Policy, e cofirmato da W.D. Davidson, il track two è definito come diplomazia non ufficiale e non strutturata, di vedute aperte, altruista e dalla strategia ottimista, supportata nella sua funzione preventiva da intensi scambi intellettuali, scientifici, formativi, artistici e culturali. Avvalorata dall’analisi degli scenari favorevoli, si muove dal presupposto secondo il quale non esistono contese irresolubili e i dissidi in atto o in fieri possono sempre essere allentati, sciolti o anticipati, attraverso l’incontro e il dialogo, facendo ricorso a volontà, ragionevolezza e pragmatismo, innanzi alle catastrofi della guerra. Cruciale è il lavoro sull’opinione pubblica per evitare la tribalizzazione, ridurre il senso di vittimismo e riumanizzare il nemico. Per Montville e Davidson, il track one ha, invece, la sua ragion d’essere nel posizionamento geopolitico delle nazioni e nella minaccia sottintesa dell’uso della forza. Entrambi i binari hanno un peso psicologico specifico e si controbilanciano.

Il termine multi-track diplomacy viene coniato dalla studiosa Louise Diamond, la quale ripulisce il campo del track two e ne mette in luce le possibilità. Nel 1992 a Washington, Diamond fonda, con l’ambasciatore John W. McDonald, l’Institute for multi-track diplomacy, la cui missione è quella di promuovere una metodologia sistemica per il peacebuilding. Il track two viene organizzato intorno a: esperti della mediazione (equiparati ai diplomatici del track one); cittadini individuali; imprenditori; professionisti dell’informazione e la comunicazione. Di seguito, viene ampliato, aggregando: capi religiosi e fedeli; attivisti sociali e politici; ricercatori, formatori ed educatori; filantropi e altri donatori. Inoltre, Diamond e McDonald ribadiscono la criticità dell’interazione fra mediazione ufficiale e non ufficiale. Nessuna è prevalente o autonoma dall’altra; compongono, piuttosto, un organismo vivo. Ognuna con le proprie peculiarità e risorse, rendono a pieno solo quando si riescono a coordinare.

Allo stesso modo, John P. Lederach, dell’Università Notre Dame dell’Indiana, esplicita un modello logico in cui la diplomazia di stato non è al vertice di un nesso gerarchico, ma è in un legame di interdipendenza con la diplomazia espressa dall’esercizio della cittadinanza attiva, con tutte le sue piste articolate tra loro. Il nocciolo del ragionamento, e della proposta, è la trasformazione dei conflitti o la gestione di questi con strumenti non violenti. I processi di pace non sono più visti come transazioni nel campo degli affari internazionali, ma come arene etiche e programmatiche per un rinnovamento del tessuto sociale e culturale e delle dinamiche politiche ed economiche alla radice delle dispute. Secondo Lederach, il track two ha il potenziale maggiore per allestire architetture che, dove necessario, sostengano la pace nel lungo periodo, e rappresenta un capitale per azioni concrete e immediate. Nello stadio avanzato della sua riflessione, concettualizza un paradigma a rete in cui gli spazi sociali, e i luoghi dove i vincoli reciproci vengono tessuti e alimentati, sono al centro del cambiamento.

La diplomazia multilivello è, dunque, pluridisciplinare e plurisettoriale, e ha il fine di abbordare le cause soggiacenti alle crisi e costruire soluzioni durature, grazie a una rigenerazione effettiva delle identità percepite, le relazioni e le leadership. Per la sua vocazione olistica, natura inclusiva, e orientamento prioritario alla concrezione della pace, accompagna, o addirittura precorre, sostentandola, la fase del peacebuilding. Soprattutto, rompe la rigidità di uno schema, improntato su cicli ripetuti di combattimenti e descalazione degli stessi, distruzione di assetti e ricostruzione infrastrutturale – a beneficio dei mercati dei “paesi amici” -, che permea la mentalità e il modus operandi di gran parte dei rapporti bilaterali e multilaterali, e in cui occupano il primo piano gli eserciti, gli armamenti e la pioggia di aiuti che spesso foraggiano la corruzione e subordinano economie già fragili. L’approccio potrebbe essere fonte di ispirazione contro la pericolosa genericità che dilaga intorno a concetti e pratiche anacronistiche della guerra.

 

Questo articolo è stato pubblicato su EinaudiBlog, il blog della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica, economia e storia.

Le foto che appaiono nel blog “Il Toro e la Bambina” sono in molti casi scaricate da Internet e quindi ritenute di pubblico dominio. Eventuali titolari contrari alla ripubblicazione possono gentilmente scrivere a info@iltoroelabambina.it, richiedendone la rimozione.

Lascia un commento

Proudly powered by WordPress | Theme: Baskerville 2 by Anders Noren.

Up ↑