La lunga marcia forzata dei Navajo, o Diné, la nazione autoctona più grande degli Stati Uniti, avvenne dall’agosto del 1863 alla fine del 1866. In 53 operazioni, condotte dell’esercito federale, 10 mila persone furono deportate dall’Arizona alla fascia orientale di quello che oggi è il Nuovo Messico. Come parte di una strategia di pulizia etnica, venne insediata una guarnigione armata, rasi al suolo i villaggi, avvelenate le fonti d’acqua, distrutti allevamenti di bestiame e coltivazioni, per annientare ogni possibilità di ritorno e continuazione delle pratiche ancestrali legate al territorio, o di sopravvivenza, da parte di coloro i quali, sfuggiti al rastrellamento, si erano riparati sull’altipiano di Mesa Verde. Nella località di Bosque Redondo, in prossimità di Fort Sumner, dopo un cammino fra i 400 e i 700 chilometri a piedi, dipendendo dalle rotte intraprese, furono rinchiusi in un campo di concentramento.
A Bosque Redondo, la maggioranza si cibava di ratti e viveva in fosse scavate nella terra; un terzo morì di stenti e malattie. Nel 1868, venne firmato un trattato che permise loro di tornare nei luoghi di origine, a cambio di rinunciare alla propria terra, vivere in una riserva stabilita dal governo ed educare le generazioni future ai valori americani. Per alcuni antropologi, il trauma collettivo generato continua a essere un fattore critico per il senso di identità del popolo Navajo.
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