Macro-economia: una priorità femminista

La relazione fra l’empowerment delle donne e la posizione occupata nell’economia e il mercato del lavoro è chiave.  Negli ultimi decenni, nonostante alcuni risultati, i trend e le statistiche sull’impiego femminile sono rimasti negativi, come rilevato nel corso della sessantunesima sessione della Commissione sullo Status delle Donne delle Nazioni Unite, conclusa il 24 marzo a New York, e le sue riunioni preparatorie.  Il World Economic Forum stima che il gap di genere non si chiuderà prima del 2186.

La forza lavoro femminile costituisce il 40 per cento del totale dei lavoratori dell’agro, il 55 per cento dei servizi, e uno scarso 16 per cento dell’industria – sottorappresentata quindi nel settore in cui stipendi e benefici sono più alti.  Nell’area dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, raggiunge l’80 per cento degli incarichi nei servizi, dove i compensi sono comparativamente inferiori.  Le donne sono marginalizzate in attività esposte all’imprevedibilità della domanda, mal rimunerate, precarie, spesso collocate nel mercato informale – il 50 per cento contro il 25 degli uomini, senza coperture sanitarie o previdenziali.  In Africa, pur essendo oltre la metà della popolazione accedono soltanto al 10 per cento dell’intero profitto del continente.  L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, inoltre, segnala che la segregazione occupazionale si è intensificata di passo con i mutamenti informatici.  Se nei paesi emergenti, fra il 1995 e il 2015, l’impiego nelle nuove tecnologie si è potenziato, il cambio assoluto è stato due volte superiore per gli uomini.

Donne di ogni età contribuiscono alla crescita globale con una grande parte di lavoro non retribuito, sia familiare sia comunitario.  Negli Stati Uniti la cura dei minori è calcolata pari a 3.2 bilioni di dollari, quasi il 20 per cento del Pil.  Lo sbilanciamento fra l’apporto femminile e maschile in queste mansioni inibisce la mobilità fisica ed economica delle donne, ne limita le opportunità di imparare e guadagnare, e ne riduce l’inserimento nel contesto formale.  Uguale salario per lavoro di uguale valore – le donne percepiscono fra il 10 e il 30 per cento in meno degli uomini (con la punta massima del 37.5 per cento in Corea e la punta minima del 3.5 per cento in Slovenia); non discriminazione in assunzioni, licenziamenti, progressione della carriera; congedi di maternità e paternità; regolamentazione degli orari per conciliare il lavoro di cura, sono diritti ancora elusi.

Non solo le diseguaglianze persistono, ma per certi versi si sono aggravate.  La caduta a cascata della crisi finanziaria del 2007 nell’economia reale e nella fiscalità ha prodotto conseguenze funeste per la produttività, l’occupazione e il welfare; la recessione si è poi tramutata in crisi politica e democratica, ed esacerbazione dell’etno-nazionalismo anti-migratorio, evidente nell’Unione Europea.  Queste molteplici ricadute, e la profondità dei loro effetti avversi, non sono le stesse per le eterogenee componenti della società (con variazioni per regioni e strutture economiche), registrando ragguardevoli discrepanze relative alla condizione di genere, e facendo della regolamentazione finanziaria e della stabilità macro-economica priorità femministe per eccellenza.

Le donne vengono colpite in maniera sproporzionata dall’impatto delle politiche monetarie che privilegiano la riduzione dell’inflazione sulla creazione di impiego, penalizzando soprattutto i gruppi svantaggiati, e della bolla dei mutui subprime, avendo introiti ridotti, impieghi instabili e, in generale, un rischioso analfabetismo finanziario.  Le misure di austerità vanno a loro detrimento, in quanto la contrazione della spesa pubblica prevede il blocco dei salari, o la riduzione dei numeri, in settori “femminilizzati”, come l’educazione, la sanità, e i servizi.  Le donne sono anche state le prime a essere rimosse in altri ambiti toccati dalla stagnazione economica (per il 70 per cento in Messico e Honduras).  In aggiunta, i tagli al sostegno dei nuclei monoparentali, l’infanzia, i disabili, gli anziani, le vittime di violenza domestica e sessuale, vanno a nuocerle in linea diretta.

La parità di genere richiede un ripensamento della tradizionale distinzione fra le politiche per la crescita economica e le politiche sociali.  La crescita non va posta in tensione con l’equità – questo è un falso binario.  Gli investimenti sociali devono essere considerati come infrastrutturali, giacché per prosperare l’economia ha bisogno di diverse forme di capitale che includono il capitale umano oltre a quello fisso.  La giustizia sociale non sottrae alla crescita, piuttosto la promuove.

Se la finanza è storicamente una monocultura declinata al maschile, la macro-economia pretende di operare in un paradigma “neutrale”, quando le relazioni e i processi che coinvolgono le persone e i gruppi non lo sono.  Tuttavia, la politica pubblica, mediante il bilancio dello stato, ha un ruolo preciso nell’affrontare la discriminazione e la disuguaglianza.  In particolare, i bilanci di genere (traduzione dall’inglese gender budgets) sono un’innovazione che traduce gli obiettivi di parità in impegni di spesa pubblica e decisioni fiscali, attraverso meccanismi identificati e indicatori specifici, che passano anche per la decentralizzazione e la partecipazione della società civile.

L’analisi ex-post dei bilanci fa luce sulla loro incidenza differenziale nelle vite dei cittadini e le cittadine e sulla reale esistenza ed efficacia di intenti, dei governi centrali e regionali, presenti e passati, mirati alla rimozione degli ostacoli per la piena integrazione delle donne nell’economia e la riduzione delle brecce fra donne e uomini nel lavoro salariato e nell’imprenditoria.  Il tema della Giornata Internazionale delle Donne di quest’anno è una chiamata a un maggiore coraggio e slancio collegiale, compreso il settore privato, nella promozione dell’agenda di genere.  Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha lanciato un appello a tutti gli uomini perché diventino femministi.  Con l’accorciarsi dell’orizzonte elettorale, questo è un parametro oggettivo e strategico nella scelta delle forze politiche da mettere alla guida della nostra traiettoria collettiva.

 

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista online dell’associazione politica Liberi Cittadini.

3 thoughts on “Macro-economia: una priorità femminista

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  1. Post molto stimolante su un argomento di solito poco trattato se non in ambito accademico. Ho apprezzato l’analisi esauriente del problema e i diversi angoli di osservazione.

  2. Nel rapporto annuale dell’ISTAT si legge che le casalinghe producono beni e servizi per 49 ore a settimana, naturalmente non retribuite. Fra coloro che svolgono sia un’occupazione che lavoro familiare, le donne superano le 57 ore settimanali, mentre gli uomini si fermano a 51. Tra casa e ufficio è quindi evidente che in Italia le donne faticano di più e, come sappiamo, guadagnano di meno.

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