Tami Rafidi, un’attivista politica e per i diritti umani, formata alla Birzeit University, ha pubblicato un interessante articolo sul blog della fondazione Friedrich Ebert Stiftung, dove riflette sull’uso del corpo delle donne nel conflitto israelo-palestinese. Rafidi ricorda che la metafora “Palestina come donna e donne come Palestina” è stata centrale dagli albori della lotta contro l’occupazione e che Yasser Arafat aveva definito l’utero delle donne come l’arma più potente contro il sionismo. Dall’altra parte, i governi di Israele hanno sempre visto nelle donne palestinesi una minaccia demografica e perpetrato soprusi mirati a ostacolarne l’accesso ai servizi di salute riproduttiva, anche con la distruzione sistematica di attrezzatura diagnostica e ambulatori medici.
In questo modo, il corpo delle donne, sia dall’ottica palestinese sia da quella israeliana, viene sessuato e ridotto all’utero come strumento, da una parte, di sopravvivenza, continuità, e conservazione identitaria di una comunità, e dall’altra, di controllo della crescita di una popolazione che, nel lungo termine, potrebbe alterare l’asimmetria di potere. Entrambe si fondano nella retorica del patriarcato. Nonostante le donne occupino posizioni di rilievo nelle professioni, e nel movimento di resistenza, emerso in contrasto al rigido controllo militare di Israele, in qualità di combattenti, leader della società civile, e membri di partito, per Rafidi, la riproduzione biologica rimane sostanziale alla guerra di liberazione e, di conseguenza, assume un aspetto definitorio per le donne.
In aggiunta, l’assassinio indiscriminato di donne e bambini, in tutto il corso dell’attuale offensiva israeliana, e l’umiliazione, la tortura, l’abuso fisico e lo stupro, delle prigioniere politiche palestinesi negli istituti penali di massima sicurezza, sono chiara evidenza di una macabra strategia, che intende colpire il simbolo per eccellenza della causa nazionale e la speranza di un popolo su cui si è abbattuta una cieca veemenza. Israele conteggia le morti dei civili alla stregua di danni collaterali, malgrado sia palese il disegno di azzeramento del tessuto sociale e culturale della Palestina. Il Centro per il supporto legale e l’assistenza alle donne, organizzazione indipendente e non-profit, attiva dal 1991, con sede a Gerusalemme, ha compilato un rapporto presentato alla Relatrice speciale dell’ONU sulla violenza sessuale nei conflitti armati, in cui si denunciano crimini di natura verbale, psicologica e fisica, nei confronti delle donne che si trovano in carcere, spesso senza processo.
Nel contesto delle guerre e i genocidi, così come in quello dell’oppressione coloniale, nella storia del mondo, il corpo femminile è stato oggetto di tattiche brutali per sconfiggere il nemico e impartire ferite destinate a restare aperte negli anni a seguire, influenzando le possibilità di ricostruzione delle società. A questo proposito, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, il 31 0ttobre del 2000, ha approvato una risoluzione su donne, pace e sicurezza (S/RES/1325), intesa a enfatizzare la necessità di applicare a pieno le disposizioni del diritto internazionale umanitario, e la legislazione sui diritti umani, affinché si proteggano i diritti delle donne e le bambine, durante e dopo i conflitti, e riaffermare il ruolo che le donne svolgono nella prevenzione e la soluzione dei conflitti, e nel consolidamento della pace.
Le donne palestinesi, invece, sono vittime di abusi e vengono sottoposte a condizioni inumane e degradanti. A Gaza non si trovano più da molti mesi gli assorbenti igienici. Donne e ragazze hanno utilizzato tutto quello che gli è passato per mano, incluso il materiale delle tende dei campi profughi e lembi di indumenti, per poter svolgere le loro mansioni e far fronte ai continui spostamenti che i bombardamenti impongono. Alcune sono ricorse a compresse di noretisterone, usato per il trattamento di disturbi ginecologici, per bloccare il ciclo mestruale. Altre lo hanno visto arrestarsi per la malnutrizione e la situazione di shock nella quale si trovano a vivere.
Molte sono state costrette a partorire senza alcun tipo di assistenza medica o infermieristica e, nei casi in cui è stato necessario operare, senza anestesia o alla luce delle torce dei telefoni mobili. Con gli ospedali rasi al suolo, e la mancanza di controlli prenatali, molte altre hanno avuto aborti spontanei o parti prematuri. Un alto numero di bambini sono deceduti nell’immediato periodo postnatale a causa della mancanza di fonti adeguate di riscaldamento o di elettricità per le incubatrici. La scarsità di acqua pulita, e l’insorgere di infezioni, ha condotto a isterectomie di massa. E ancora, la penuria di generi alimentari rende impossibile alle madri di produrre latte. Questi per la S/RES/1325 sono crimini di guerra.
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