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Giornata mondiale della Terra – Il Toro e la Bambina

Giornata mondiale della Terra

La Terra non gode di buona salute. Il servizio climatico dell’Unione Europea ha evidenziato che il 2024 è stato il più caldo mai avuto prima, con una temperatura globale di oltre 1.5°C i parametri preindustriali. Questo bilancio negativo si è spesso manifestato attraverso siccità e inondazioni, queste ultime particolarmente devastanti in Afghanistan, Pakistan, Brasile, Uruguay, e località europee, fra le quali in Spagna e Italia. Circa due mila sono gli eventi estremi calcolati dall’inizio dell’anno scorso a fine settembre.

In aggiunta, la perdita di foresta tropicale, al centro degli equilibri climatici del pianeta, ha peggiorato la situazione. In Amazzonia si è verificato il numero maggiore di incendi mai registrati dal 2007, soprattutto in Bolivia. Secondo il World wide fund for nature (Wwf), in cinquanta anni si è, inoltre, assistito a una grave perdita di biodiversità con una riduzione media complessiva delle popolazioni di vertebrati in tutto il mondo pari al 73 per cento.

La triade cambiamento climatico, perdita di biodiversità e inquinamento idrico e atmosferico, è la principale questione del nostro tempo. Nell’ambiente non esistono confini e, di conseguenza, un piccolo sversamento locale può avere ripercussioni dalla parte opposta del mondo (effetto farfalla); e i veleni persistenti possono viaggiare da un continente all’altro muovendosi con l’aria, l’acqua, e il suolo (effetto cavalletta).

L’inquinamento idrico provoca circa 1.4 milioni di morti premature al mondo, ogni anno. Uno studio del Wwf prova che, in Europa, solo meno della metà (44 per cento) dei corpi idrici superficiali è in buono o elevato stato ecologico, e in totale sono 160 gli inquinanti che inducono il mancato raggiungimento di un buono stato chimico delle acque sotterranee. In Italia, il 13 per cento dei fiumi, e l’11 per cento dei laghi, non raggiungono il buono stato (rispettivamente il 9 e il 20 per cento non sono ancora stati esaminati); mentre il 27 per cento dei corpi idrici sotterranei è classificato in stato chimico scarso.

Nel continente europeo, l’inquinamento chimico sta degradando anche la compagine marina, con l’80 per cento delle zone valutate, designate come problematiche. Tra il 75 e il 96 per cento supera i limiti per una o più sostanze nocive. Nel Mar Baltico, per esempio, il 96 per cento delle aree monitorate presenta tassi di inquinamento critici, percentuale simile per il Mar Nero (91 per cento). L’87 per cento del Mediterraneo ha problemi di inquinamento, soprattutto legato a metalli tossici, sostanze industriali e rifiuti di plastica. Con 1.9 milioni di frammenti per metro quadro, il Mediterraneo presenta la più alta concentrazione di microplastiche misurata nelle profondità. Migliore, ma pur sempre preoccupante, la situazione del Nord Est dell’Oceano Atlantico dove il 75 per cento delle aree presenta forte contaminazione.

Gli esseri umani possono ingerire le microplastiche dagli habitat acquatici attraverso il consumo di organismi marini e l’acqua (sia corrente, sia in bottiglia). Oltre 840 le microplastiche ingerite all’anno dal consumo di tre principali specie commerciali di pesce (spigola e due tipologie di sgombro), fino a 11 mila dal consumo di bivalvi (cozze, vongole), meno dai gamberi (fino a 175 per anno) e fino a 458 mila dall’acqua di rubinetto, oltre 3 milioni, invece, dall’acqua in bottiglie di plastica. Se contiamo, poi, l’esposizione da aria, e alimenti di diversa provenienza, ogni giorno possiamo assumere oltre 100 mila microplastiche.

Nell’uomo le microplastiche sono state trovate nelle feci (anche quelle dei bambini), nella placenta, nel sangue, nel cervello, e nelle aree profonde dei polmoni. Sebbene non vi siano ancora numerose evidenze epidemiologiche di effetti immediati dell’esposizione umana alle microplastiche, i dati procedenti, soprattutto dagli studi sui mammiferi e sugli organismi bioindicatori, evidenziano che una volta che le microplastiche sono entrate nel nostro organismo, questo non è in grado di degradarle. L’accumulo di questo materiale estraneo conduce a un continuo stimolo infiammatorio, alterazioni cellulari e genotossicità, che possono generare importanti conseguenze.

L’inquinamento atmosferico è stato dichiarato dalla World health organization (Who) una “emergenza sanitaria pubblica globale”. Oggi è, infatti, la fonte principale di morti premature con oltre 7 milioni di decessi e il 99 per cento della popolazione mondiale che respira aria non sicura. I bambini sono i soggetti più colpiti: 700 mila decessi sotto i 5 anni, il 15 per cento di tutte le morti in questa fascia d’età.

Oltre il 70 per cento dei cittadini europei vive in aree urbane, dove l’alta densità di popolazione e attività economiche produce un’ingente degrado del biosistema. Gli inquinanti che costituiscono un serio ostacolo per la salute pubblica includono il particolato fine (Pm2,5), il monossido di carbonio (Co), l’ozono (O3), il biossido di azoto (No2) e il biossido di zolfo (So2). Un’altra ricerca del Wwf rivela che l’esposizione al Pm2.5 ha procurato 253 mila morti premature, 52 mila sono correlate all’esposizione al No2, e 22 mila quelle allo O3, per un totale di quasi 330 mila decessi.

La medesima ricerca mostra che, in Italia, questi stessi inquinanti hanno causato 63 mila morti. Con il Pm2.5, che da solo contribuisce a 47 mila decessi, siamo il secondo paese in Europa per numero di morti premature cagionate da tale inquinante. Nella Pianura Padana, che presenta tra i livelli più cospicui di inquinamento da Pm2.5 in Europa, sono stati stimati 39 mila decessi. La Lombardia, con 121 morti premature per il PM2.5 ogni 100 mila abitanti, è la regione più inquinata dal particolato fine, seguita da Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna, tutte al di sopra del dato medio nazionale di 79 morti per 100 mila abitanti. Fra le città, il drammatico primato in termini assoluti va alle città metropolitane di Milano, Roma e Torino.

Gli impatti della perdita di natura sulla salute umana, e la sopravvivenza del pianeta, palesano l’urgenza di mettere in atto soluzioni concrete ed efficaci. Tuttavia, la conferenza delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla biodiversità, Cop 16, tenutasi lo scorso ottobre, a Cali in Colombia, si è conclusa senza un accordo, per mancanza di quorum, sulle risorse economiche necessarie a conseguire gli obiettivi di tutela. E, in occasione della Cop 29 sui cambiamenti climatici, dello scorso novembre, a Baku in Azerbaigian, si è ottenuto un aumento modesto degli stanziamenti, a favore dei paesi in via di sviluppo, per consentire loro di affrontare la transizione e l’adattamento, funzionali a una riduzione delle emissioni climalteranti.

Persino il tema del contrasto alla dispersione di plastica, su cui sembrava avviata un’accelerazione positiva, ha visto chiudere il trattato con un nulla di fatto, al quinto round di negoziazioni, e il rinvio di tutte le decisioni al 2025. Nel frattempo, è stata avviata una procedura di infrazione contro l’Italia per recepimento incompleto, e in alcuni passaggi non corretto, della direttiva europea sulla plastica monouso, entrata in vigore a luglio 2019.

Una nota positiva viene dal proseguimento della Cop 16, svoltasi a febbraio, nella sede della Fao a Roma, con l’intesa per la creazione di un flusso controllato di finanziamenti internazionali, dai 20 miliardi di dollari previsti per il 2025, a 30 miliardi entro il 2030, e l’intenzione di mobilitare 200 miliardi di dollari l’anno, mediante l’ausilio di fonti aggiuntive e diversificate. Nel documento finale, viene ribadito l’obiettivo di tagliare almeno 500 miliardi di dollari l’anno dai sussidi rivolti ad attività dannose per la biodiversità. Nonostante ciò, solo 382 milioni di dollari sono stati raccolti, e tra i paesi donatori non figura l’Italia.

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