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Il movimento delle donne in Palestina – Il Toro e la Bambina

Il movimento delle donne in Palestina

L’8 marzo in Palestina è sempre stata una ricorrenza connotata da un’intersezione emblematica che, nella storia, ha tenuto insieme l’emancipazione delle donne dall’impianto di oppressione patriarcale radicato nella società palestinese, con la resistenza contro la dominazione coloniale britannica, prima, e la lotta di affrancamento dall’occupazione israeliana, dalla Grande Rivolta degli anni trenta, alla tragedia della Nakba, fino ai giorni nostri. Come spesso avviene nei moti indipendentisti, nazionalistici e ideologici, si è trattato di un lungo cammino, che prende piede dagli arbori del Novecento, tramite una sfida continua, per definire il proprio ruolo nel contesto dell’Islam politico, saturato dalla proiezione identitaria maschile, per evitare che le rivendicazioni dell’agenda femminista venissero subordinate nelle strategie complessive e, non da ultimo, per sottrarsi alle strumentalizzazioni interne ed esterne.

Alcune date specifiche riflettono questa complessità, anche dettata, e nutrita, da una molteplicità di forme, risposte e spazi, diversi e complementari, come la resistenza armata, la rappresentanza politica, il contributo culturale, il mutualismo sociale, e la militanza popolare. L’8 marzo 1978, per esempio, vennero creati i Comitati di lavoro delle donne, su iniziativa di una giovane generazione radicale il cui obiettivo era quello di affiancare istanze femministe e di classe agli sforzi di liberazione nazionale. L’8 marzo 1984 fu la giornata conclusiva di proteste di undici mesi delle detenute politiche per ottenere condizioni di prigionia meno degradanti. L’8 marzo 1988 le donne realizzarono oltre un centinaio di cortei, mostrando il volto civico e pacifico della Prima Intifada. E fu, poi, l’8 marzo 2016, il giorno scelto da Israele per arrestare Manal Tamimi, leader dei Comitati popolari di resistenza nonviolenta, e delle dimostrazioni del venerdì, nel villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, contro gli abusi dell’esercito.

L’intersezione di questi piani altro non esprime che un principio cardine nella concezione del femminismo, ovvero la non neutralità. A partire dal 1965, quando venne creata l’Unione generale delle donne palestinesi, nella compagine dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), la partecipazione femminile sarà attiva e centrale. In un’ottica di boicottaggio del sistema economico e sociale del colonialismo di insediamento, le donne daranno vita a orti comuni, cliniche e scuole autogestite. Il lavoro di cura si farà gesto politico nella preservazione della cultura e la memoria collettiva contro la frammentazione della comunità e la strategia di deumanizzazione dell’apparato repressivo militare. Gruppi emergenti reclameranno il diritto alla parola nello spazio pubblico, in partiti e sindacati, rivolgendosi alla loro stessa società per la costruzione di alleanze paritarie.

In tale scenario, Tàlia‘àt (in arabo, quelle che scendono in strada), una realtà nata nel 2019 al di fuori di qualsiasi organizzazione formale, in contestazione al femminicidio di Israa Gharib, e coordinata grazie alle reti sociali, si mobilita con lo slogan “Non c’è patria libera senza donne libere”, per l’approvazione della legge sulla protezione della famiglia e delle donne, ferma sul tavolo del consiglio legislativo palestinese, malgrado il lavoro di pressione di anni del movimento delle donne. Le manifestazioni tenute in Cisgiordania, la Striscia di Gaza, i territori del ’48 e le diaspore, si amplieranno in solidarietà con lo sciopero della fame di Heba Al Labadi, sottoposta a torture nelle carceri israeliane. Questa duplice denuncia esprime un manifesto che affronta la correlazione tra dominazione coloniale e struttura patriarcale e identifica nel femminismo il vettore in grado di ridefinire l’identità palestinese.

Nel corso del conflitto, del resto, il corpo femminile, nella sua funzione riproduttiva, è stato politicizzato e strumentalizzato, sia nella retorica nazionalista sia nella pervasiva violenza coloniale. L’assetto patriarcale di entrambe, a seconda della narrazione, ha ridotto le donne a “madri della patria” o “fabbrica di terroristi”. Attraverso di loro, continua a essere riprodotta, materialmente e simbolicamente, la Palestina; mediante lo smantellamento dei servizi di salute riproduttiva – affiancato da una strategia di deportazioni forzate di palestinesi e insediamenti illegali di israeliani – avviene una feroce alterazione della demografia dei territori occupati. Ciò che le donne propongono in Palestina è un approccio teorico-pratico articolato che include una riflessione, tanto sul nesso tra egemonia e subalterità, quanto sulla gerarchia delle priorità, e una visione per relazioni fondate sull’equità e la giustizia fra popoli, e gli uomini e le donne di questi.

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